La crème brulèe de Il Favoloso mondo di Amelie non aggiunge nulla al senso di quel film, se mai ne avesse uno. Quindi mettiamo le cose in chiaro fin da subito, cari lettori di Dissapore: oggi parleremo di ricette dei film che contribuiscono alla trama degli stessi, arricchiscono la sceneggiatura o quantomeno danno un valore aggiunto.
Perché se un piatto c’è in quasi ogni film, che si tratti di un’opera imperitura o di una commediucola fine a se stessa, è raro che una preparazione gastronomica contribuisca alla creazione del senso di una pellicola cinematografica.
I migliori film sul cibo (secondo noi) ve li abbiamo raccontati in una puntata precedente: oggi raccogliamo i titoli che si distinguono, tra le altre cose, perché danno un ruolo alle ricette. Singoli piatti che per valore simbolico, storico, culturale, evitano di classificare un film semplicemente come un “film sul cibo”. Niente Juliette Binoche insomma, venditrice porta a porta di cioccolato. Avesse veduto lasagne al ragù il risultato sarebbe stato lo stesso, effetto foodporn compreso. Qui troverete ricette dei film non per forza conosciute, meno accondiscendenti, ma decisamente più saporite.
La cioccolata con benzodiazepine di Grazie per la cioccolata
È del 2000 questo meraviglioso film noir firmato Claude Chabrol, uno dei maestri del cinema francese. Isabelle Huppert, perfetta come sempre in un ruolo inquietante e affascinante, interpreta Mika Muller, direttrice di una grande azienda di cioccolato, sposata con un celebre pianista, André Polonski. Se altrove la cioccolata è la cornice che racchiude calore e famiglia, qui il quadro è ben diverso, con rancori e odi mai sopiti e la famiglia che si trasforma in una gabbia claustrofobica. La vita di Mika, il suolo ruolo di moglie e matrigna, vengono infatti intaccati dall’intrusione di Jeanne, giovane pianista che crede di essere figlia di Polonski e vittima, alla nascita, di uno scambio di culla. La presenza di Jeanne, arrivista e seducente, riporta in superficie gelosie del passato, ma soprattutto rivelerà l’abitudine sistematica di Mika di sciogliere benzodiazepine nella cioccolata quotidiana servita alla famiglia, per tenerne soggiogati i componenti in un dolce torpore.
Fate attenzione ai colori della pellicola, con i marroni che sono un omaggio alle sfumature del cioccolato.
Cous Cous
È una prova di resistenza questo film del 2007 di oltre due ore mezza realizzato da Abdel Kechiche premiato con il Leone d’Argento a Venezia. La lunghezza però è ripagata dall’intensità con cui viene la raccontata la storia del sessantenne maghrebino Slimane che, sottopagato e sfruttato, decide di ristrutturare una vecchia barca e farne un ristorante dove proporre la sua ricetta di cous cous al pesce. Il locale galleggiante diventa così il simbolo non solo di una rinascita, ma anche di un ritorno alle origini, identità gastronomica che rimanda ad una identità culturale che non ha mai potuto beneficiare di una vera integrazione nella democrazia francese. Le scene della preparazione del cous cous da parte delle donne della famiglia sono notevoli, sensualissime.
Pollo alle pugne
Ambientato nella Teheran degli anni ’50, è un omaggio alle tradizioni iraniane e a Fellini. La regista è Marjane Satrapi che ci aveva fatto innamorare di Persepolis. La storia raccontata in Pollo alle prugne, anche se con personaggi in carne ed ossa, è a metà strada tra il reale e l’onirico, una specie di favola nella quale la politica e la storia rimangono sullo sfondo. Il protagonista è il suonatore Nasser-Ali, che non riuscendo a trovare uno strumento degno di sostituire il suo tar, distrutto dalla moglie, durante un litigio, decide di mettersi a letto e aspettare l’arrivo di Azrael, l’angelo della morte, rifiutandosi di mangiare.
La trama è un continuo fash-back con scene costruite attraverso immagini che rimandano al fumetto. Il pollo del titolo non è altro che un simbolo, che riassume tradizioni e cultura iraniana. Tuttavia è anche un piatto delizioso: se vi capita di assaggiarlo, com’è successo a me, scoprirete che la combinazione agrodolce, tipica della cultura araba, dà dipendenza.
Lo Jjapaguri in Parasite
Trionfatore agli Oscar di quest’anno, Parasite è un capolavoro che richiederebbe anni di analisi cultural sociologica. Tra i molti elementi utilizzati da regista Bong Joon-ho per descrivere il gap tra le due famiglie, Kim e Park, il cibo è sicuramente uno dei più interessanti.
La scena che riassume bene il pregiudizio e la spocchia riservata dalla ricca signora Park alla governante è quella in cui le ordina, al telefono, di prepararle per cena il Ram-don. L’idea che le classi popolari (che poi la famiglia Kim si limita a nutrirsi consumando riso, kimchi e uova..) e le donne che ne fanno parte, in particolare, siano depositarie di particolari abilità culinarie, è dura a morire, così come la celebrazione nostalgica del passato. Suona pertanto quasi dissacrante il “Cosa diavolo è il ram-don?”, ringhiato dalla governante una volta posata la cornetta.
Alla nobile donna sarà servito, in realtà, dello Jjapaguri, combinazione di Chapaghetti e Neoguri, noodle istantanei (la richiesta della signora Park lo eleva a piatto alto-borghese per l’aggiunta di cubetti di un pregiatissimo filetto di manzo).
La vendetta, una delle tante in questo film sul riscatto sociale, si compie nel momento in cui la signora Park, che per posizione sociale dovrebbe essere abituata a cibo raffinato, salutare e cucinato alla perfezione, è incapace di riconoscere il popolare precotto dal fatto in casa.
Lo strudel di mele in Bastardi senza gloria
Anche se Tarantino è un amante del fast food, abbiamo scelto un film in cui a farsi metafora delle relazioni umane non sono hamburger e milkshake, quanto piuttosto uno dei più antichi dolci della tradizione gastronomica mitteleuropea, la cui preparazione richiede tempo e perizia: è un meraviglioso strudel di mele il protagonista di una delle più crudeli scene di Bastardi senza Gloria in cui un meravigliosamente perfido Christoph Waltz, che interpreta il generale delle SS Hans Landa, è seduto al tavolo con Melanie Laurent (Shoshanna Dreyfus), alla quale ha in passato sterminato la famiglia.
Il generale ordina per entrambi uno strudel di mele con la panna: la voracità e la rozzezza nel mangiarlo da parte di Landa contrastano con i bocconi stentati di Dreyfus. La chiusura è affidata ad una sigaretta spenta sulla fetta di dolce, che non serve certo decodificare.
I dorayaki in Le ricette della signora Toku
Adattamento dell’omonimo romanzo di Sukegawa, narra la storia di Sentaro, che gestisce un piccolo chiosco alla periferia di Tokio, in cui serve dorayaki, i dolci ripieni con pasta dolce e marmellata di fagioli rossi azuki. Gli affari vanno male finché non si presenta Toku, una vecchia signora, che si offre di dare un aiuto in cucina. Nonostante l’iniziale diffidenza, Sentaro accetta e la ricetta di Toku si rivelerà decisiva per la rinascita economica dell’attività.
Riflessione solo in parte rivolta al ruolo dell’anziano come depositario di memorie e tradizioni, è in realtà uno sguardo più ampio sulla società giapponese, sulle conseguenze dello stigma sociale (di cui sono vittima sia Sentaro che Toku), sulla solitudine e su una società in cui chi non è più produttivo viene di fatto relegato ai margini.
Il sugo di salsiccia e polpette ne Il Padrino
Nel capolavoro del 1972 di Francis Ford Coppola che racconta la saga della famiglia Corleone, si cita il sugo di salsiccia e polpette, legame con la terra di emigrazione e tradizione re-inventata dagli italo-americani con aggiunte e varianti (un po’ come gli spaghetti alla bolognese, insomma).
Il picciotto Clemenza, impegnato nella preparazione del sugo, invita Michael Corleone (Al Pacino) ad imparare la ricetta: “Vieni qua guagliò, può succedere che devi cucinare per una ventina di figli! Vedi, si comincia con un poco d’olio, ci friggi uno spicchio d’aglio poi ci aggiungi tomato e anche un poco di conserva. Friggi e attento che non si attacca; quando tutto bolle ci cali dentro salsicce e pulpetta, poi ci metti uno schizzo di vino e nù pucurille ‘e zucchero“.
La pasta al forno in Pranzo di Ferragosto
Ambientato in una Roma deserta, afosa e ferragostana, racconta la vicende di Gianni, un uomo solo e di mezza età, alle prese con la madre anziana e un gruppo di arzille ed esigenti vecchiette, tra cui la madre dell’amministratore di condominio, scaricata a Gianni in cambio dell’estinzione del pagamento di tutte le spese condominiali arretrate. Il rischio di raccontare la vecchiaia, già tema poco attraente di per sé al cinema, scadendo nei cliché della solitudine, della malattia o della saggezza, era estremamente alto.
Ne esce invece una commedia, in parte autobiografica (il film è diretto da Gianni Di Gregorio, anche protagonista) godibilissima, al centro della quale c’è il memorabile pranzo, la sua preparazione e la sua attesa. Seguiamo Gianni al mercato e dal macellaio di fiducia, mentre sceglie gli ingredienti con cura. La parte migliore resta la preparazione della pasta al forno, con la mozzarella che poi dovrà fare “la crosticina”.
L’impiattamento “stellato” in Soul Kitchen
Ambientato ad Amburgo, il film del regista turco Fatih Akin racconta le vicissitudini di Zinos Kazantzakis, giovane e belloccio proprietario di uno sgangherato ristorante, Soul Kitchen, appunto, frequentato da operai e rozzi clienti, abituati a piatti surgelati e confezionati. In crisi con la fidanzata, con il fratello in carcere e sul punto di perdere tutto per colpa del fisco, Zinos punta sul rilancio del locale assumendo Shayn, che incarna tutti i cliché degli chef contemporanei: cuoco stellato (in rovina), arrogante, dall’ego ipertrofico, irascibile e impermeabile alle critiche.
La scena memorabile è quella in cui Shayn utilizza gli ingredienti scadenti del ristorante impiattandoli come se fossero ricette stellate, per dimostrare come un piatto dal costo irrisorio possa portare a guadagni altissimi, sapientemente ricaricato e inserito in carta come se fosse una ricetta raffinatissima. Uno sberleffo alla cucina contemporanea e all’incapacità dei clienti disposti a pagare cifre altissime, senza distinguere un filetto surgelato Findus da un baccalà fresco.
Lo stufato in Julie & Julia
Da fan di Nora Ephron non possiamo dire che sia uno dei suoi film migliori. Tuttavia è una commedia non troppo femminile e leziosa in cui il cibo diventa veicolo di una sorta di dialogo a distanza tra due donne rappresentative di altrettante generazioni. La trentenne newyorkese Julie Powell, complice un lavoro decisamente poco entusiasmante, decide di dare vita ad un progetto ambizioso e bizzarro: replicare ogni giorno una delle ricette del libro di cucina “L’arte della cucina francese”, di Julia Child.
Se riuscite a resistere al doppiaggio terrificante toccato in sorte a Meryl Streep, la ricetta che sintetizza tutto il progetto, la fatica e il desiderio della protagonista di incontrare la sua “mentore” accogliendola con un piatto alla sua altezza è il Boeuf Bourguignon, uno “stufato” di carne e verdure dalla cottura lunghissima.
I macarons in Marie Antoinette
Non sono le storiche brioche ad essere protagoniste nel film che Sofia Coppola dedica a Maria Antonietta, ma i macarons. Simbolo di eccessi regali, capricci, isolamento e alienazione, i pasticcini dai toni pastello usciti da una mazzetta Pantone – per i quali abbiamo avuto tutti un momento di dipendenza e innamoramento, terminato mestamente con la recente chiusura, in Italia, di Ladurée – incarnano una storia femminile che è di fatto quella di un’adolescente spedita dalla corte austriaca a quella francese, per essere data in moglie a Luigi XVI. Amante del lusso, l’Austriaca, come venne ribattezzata con spregio, nel film della Coppola passa le giornate in una gabbia dorata, barocca, colorato, mangiando dolci.
La frittatona ne Il Secondo Tragico Fantozzi
Da consumarsi davanti a Italia Inghilterra, annaffiata da familiare di Peroni gelata, la frittatona di cipolla di Fantozzi è il cibo familiare, basico, popolare, impiegatizio, fatto di due ingredienti (Fantozzi chiede giusto un po’ di pepe alla Pina), quello che si consuma sul divano, tenendo il piatto con una mano mentre l’altra si sposta tra forchetta e telecomando. Il piatto della consolazione da un’esistenza mediocrissima, tuttavia, deve essere abbandonato di fronte alla telefonata del ragionier Filini, che richiama all’ordine: il cineforum dedicato ad un film cecoslovacco sottotitolato in tedesco.