Gente chiusa in stanze che non fa altro che mangiare e si scanna per gli alimenti: tra le tante metafore proposte dall’ennesimo distopico film di Netflix, Il Buco, quella sul cibo, mai così calzante con la quotidianità che viviamo, durante la pandemia del Coronavirus. La nostra recensione.
I film prodotti da Netflix (non parlo delle serie: lì c’è più varietà) si somigliano quasi tutti: sono spesso un mix di distopia, fantascienza filosofica, colori plumbei, bella fotografia e sceneggiatura che starebbe sul foglietto di un Bacio Perugina. Fatti salvi quelli d’autore – Roma, The Irishman… – lo schema è quello (e qualche volta non basta nemmeno l’autore: impossibile vedere in Okja la mano di Parasite).
Il Buco – siamo onesti – non si discosta poi molto da questa ricetta: è un frullato di The Cube, The Experiment e di altri mille pellicole del filone “gente inspiegabilmente chiusa in uno spazio di cemento che sbrocca” (senza voler scomodare Orwell o Buzzati). Ma allora, perché lo stanno vedendo tutti? Perché sui social non si parla d’altro? Perché da giorni è saldamente il lungometraggio più visto di Netflix? Ma soprattutto – chiederete – perché ne parliamo su Dissapore?
Provo a rispondere a tutte queste domande in poche righe. Parto dall’ultima: se vi domandate perché ne discutiamo su Dissapore significa che non l’avete ancora visto. La trama, in poche parole e senza nessuno spoiler: un ragazzo accetta di partecipare a un esperimento per cui si trova in una cella in compagnia di un coinquilino; questa cella è una di centinaia impilate una sopra l’altra; al centro della cella c’è un buco (eccolo “Il Buco”!) rettangolare nel pavimento e uno corrispondente nel soffitto, per cui si vedono le celle giù e quelle su; a una cert’ora in questo buco transita, passando dall’alto al basso come un ascensore, una tavola imbandita da cui tutti si possono approvvigionare: quindi chi sta al primo piano pranza da dio, chi sta all’ultimo forse digiunerà. Dunque, la domanda è: vincerà l’egoismo o i reclusi riusciranno a organizzare una società equa, lasciando a ognuno qualche boccone? Il cibo, quindi, è sempre – letteralmente – al centro della scena (come delle stanze): chi mangia vive, chi non mangia, muore.
“Il Buco” – produzione spagnola, diretto da Galder Gaztelu-Urritia, al suo primo lungometraggio – è un po’ come “Snowpiercer” (per tornare a Bon Joon-ho) – tanta gente intrappolata, divisa tra privilegiati e disgraziati, come finirà? – e come quello ha la grana grossa della fantascienza politica di consumo. Però, diciamolo, i motivi di interesse in questi giorni di clausura – e in particolare per noi golosi – non mancano (e dunque giustificano il successo).
Il primo è che un film che parla di gente chiusa in stanze che non può fare altro che mangiare (ognuno ha diritto a portarsi un oggetto: il protagonista ha un libro, Don Chisciotte, ma non riuscirà a leggerlo) è terribilmente aderente allo stile di vita che abbiamo tutti ai tempi del virus.
Il secondo è che un mondo in cui ci si scanna per gli alimenti è quello che tutti paventiamo, se la quarantena durasse così a lungo da far passare la pazienza che ancora ci tiene (abbastanza) ordinatamente in fila di fronte al supermercato.
Il terzo è che la tavola imbandita che traversa le celle è coperta non di alimenti essenziali – come avrebbe senso, dovendo sfamare centinaia di persone disperate – ma di raffinatissimi manicaretti: fin dall’inizio vediamo cucine, cuochi con la toque, maitre impegnati a preparare quotidianamente aragoste, anatre, salmoni in bellavista e zuppe inglesi sotto cloche di cristallo. Raffinatezze cui i prigionieri non dedicano alcuna attenzione, proiettati come sono ad arraffare quanto più cibo e quanto più in fretta possibile (la tavola si ferma pochi istanti al piano ed è proibito conservare del cibo, pena la morte). Anzi: i detenuti il cibo lo calpestano, lo spappolano, vi defecano sopra persino per far dispetti agli altri. Questa metafora qui, diciamolo, ha un suo perché e lo è ancor di più per noi golosi. È come se dicesse: gastronomia? Di cosa stiamo parlando? La gente muore di fame e si fa guerra e ci preoccupiamo dell’impiattamento (così, certo, è molto superficiale, ma uno spunto c’è).
Il quarto – e per me risolutivo, nel senso che mi ha fatto finire il film con un buon sapore in bocca – è che a un certo punto, senza rivelarvi niente, un alimento particolare diventa un simbolo potente. E quell’alimento è uno dei miei dolci preferiti (non lo mangio da nessuna parte al mondo migliore che all’Osteria Antiche Sere di Torino). E sopratutto è un dolce italiano. Piemontese. La panna cotta. Proprio così: la panna cotta. La dicono esattamente così, “panna cotta”, anche nella versione originale, in spagnolo: “La panna cotta es el mensaje”, “La panna cotta è il messaggio.”
Ecco, come avrete capito non ho amato il film (che invece è piaciuto a tantissimi, e certamente avranno le loro ragioni), ma un merito glielo devo riconoscere: mi ha fatto venire una dannata voglia di farmi una panna cotta. Che poi è quel che conta: la panna cotta è il messaggio.