Mercoledì 7 Settembre è uscita in tutto il mondo su Netflix una nuova serie di episodi dedicati alla pizza del programma Chef’s Table. Qui ci sono in breve tutte le cose che devi sapere prima di guardare le puntate e farti una tua idea. Spoiler Alert.
Partiamo dal fatto che l’ultima stagione di Chef’s Table è del 2019. In tutto ne sono state prodotte 6 a partire dal 2015, con uno spin off del 2016 dal titolo Chef’s Table France dedicato proprio alla Francia. Questa stagione raccoglie sei puntate che hanno come protagonisti 6 chef pizzaioli che lavorano in Italia, Stati Uniti e Giappone. La durata media dei singoli episodi è di 45 minuti. Le 6 puntate sono state rese disponibili contemporaneamente il 7 Settembre e hanno come protagonisti in questo ordine: Chris Bianco (Stati Uniti), Gabriele Bonci (Italia), Ann Kim (Stati Uniti), Franco Pepe (Italia), Yoshihiro Imai (Giappone), Sarah Minnick (Stati Uniti). Per guardarle non serve seguire un ordine preciso, perché ogni puntata è una storia che basta a sé stessa, ma serve un abbonamento a Netflix che distribuisce Chef’s Table dalla prima stagione. Ora sei pronto/a per sapere che cosa ne pensiamo.
È un bentornato
Chi conosce un po’ Chef’s Table sa che l’uscita di una nuova serie è un evento. Alcuni dei partecipanti delle precedenti stagioni (come Ana Roš) hanno raccontato di come il programma abbia regalato loro una fama mondiale. Il fatto che proprio a questo punto si parli di pizza non è casuale e rappresenta una grande opportunità per raccontare da una nuova prospettiva, più riflessiva e ideologica, l’evoluzione contemporanea della pizza, il superamento della tradizione verso una nuova identità. Non solo farina, mozzarella e pomodoro, ma agricoltura, territorio, concetto e famiglia. Questo è un momento fortunato per la pizza nel mondo, perché i riflettori si sono accessi su un mercato che fino a poco tempo fa veniva considerato di serie b, commerciale, massivo, un’altra storia rispetto all’alta cucina.
Se non siete appassionati, va bene uguale
Questo è più o meno il motivo per cui Chef’s Table piace sia ai nerd della cucina (la nicchia) che a chi non è affatto interessato all’argomento (il grande pubblico). La nuova serie sulla pizza infatti parla di tutto tranne che di pizza, o quasi. La pizza è un veicolo per raccontare le storie degli chef coinvolti nella narrazione. Alla base di tutto c’è il vissuto, le esperienze personali e il percorso, spesso tormentato, che ha portato ciascuno chef a un punto di svolta e poi di riuscita. La pizza fa da collante a questo percorso, ma potrebbe essere anche – parlo per assurdo – il golf, il giornalismo, la matematica – ed è un elemento funzionale a dimostrare che dietro ogni chef c’è un uomo o una donna che hanno sofferto per affermare sé stessi tramite il proprio lavoro e tramite il proprio prodotto.
Il trionfo dello storytelling
Dalla malattia fisica di Chris Bianco, alla salute mentale di Gabriele Bonci, ai pregiudizi razziali di Ann Kim, i dissidi con i fratelli di Franco Pepe, lo scontro con la cultura di nascita di Yoshihiro Imai e la ricerca di una propria affermazione per Sarah Minnick, Chef’s Table è il trionfo dello storytelling. E non stiamo dicendo che è un male perché con questa operazione la serie di David Gelb ha la capacità di parlare a un ampio pubblico che non è preparato o interessato ad approfondire noiosi tecnicismi sul mondo della lievitazione, sfuggendo alla limitante definizione di programma di cucina. Per familiarizzare con la pizza bastano pochi elementi di contesto, immagini di grande impatto e interventi di giornalisti e familiari che incorniciano le storie e ne spiegano i passaggi fuori schermo. Il focus sul fattore umano apre le porte a una narrazione fatta di empatia, di sofferenze, di cadute, di cambi di programma, di rinascite in cui l’unico elemento narrativo veramente problematico è l’appiattimento. Mentre gli episodi scivolano via è sorprendente notare, nonostante le specificità, quanti elementi in comune abbiano i protagonisti da un lato all’altro del mondo, quanto le loro storie siano simili. Ogni puntata sembra infatti rispondere a un unico plot in cui si alternano crescita, caduta e risurrezione in un percorso di formazione che prende spunto da generi letterari consolidati come l’epica e la favola. Ma dialoga anche apertamente con il mito tutto americano del self made man e della self made woman. C’è una frase di Pepe molto indicativa in questo senso: “Solo con il successo, io potevo riscattarmi” dice. È una dinamica ben presente in tutte le serie di Chef’s Table che qui ha trovato particolare fortuna.
Per chi pensa a Napoli
Questo risponde anche alla domanda di chi si chiede almeno in Italia perché Franco Pepe e Gabriele Bonci e non qualcun altro, perché l’ingombrante presenza di Napoli sia stata risolta con un giro di battute e una manciata di secondi: perché qui c’erano due storie che avevano l’urgenza di essere raccontate e che il pubblico di Chef’s Table poteva capire e amare, non solo due pizzaioli che hanno acquisito fama internazionale nel proprio mestiere. In questo senso la puntata dedicata a Gabriele Bonci è un piccolo capolavoro, sebbene non privo di distorsioni, perché ha lavorato sul filo del rasoio per costruire un difficile equilibrio tra il detto e il non detto, raccontando una complessità umana disarmante con un linguaggio accessibile, in qualche frangente disturbante, le ombre e le luci del personaggio e della persona in modo che potessero essere decifrate anche da chi ha solamente il ricordo del personaggio televisivo. Specialmente con Bonci si è rinunciato a una narrazione troppo anestetizzata, anche se teatrale come del resto teatrale è l’uomo, per lasciare un finale aperto che restituisce una visione autentica, nei limiti del consentito per un programma TV made in United States.