C’è troppo cibo italiano nel mondo? O meglio: c’è troppo cibo italiano nelle serie TV di tutto il mondo? È quello che si chiede Eater, il nostro adorato magazine statunitense. E si risponde sì, senza dubbio, in un editoriale dal titolo tranchant: I Am Tired of Watching People Go to Italy. La giornalista Bettina Makalintal si riferisce alle serie televisive in cui un personaggio famoso viene qui e scopre, si fa per dire, le bontà gastronomiche caratteristiche del nostro paese.
L’ultimo in ordine di tempo è (More Than) A Cooking Show, che andrà in onda questo autunno sulla CNN ed è ambientato in Costiera Amalfitana. Ma solo di recente ci sono stati Bobby and Giada in Italy; Stanley Tucci: Searching for Italy; vari episodi di Chef’s Table (l’ultima stagione parlava di pizza, e che no?), Somebody Feed Phil, Top Chef, Salt Fat Acid Heat. Per non parlare delle fiction in cui però il cibo assurge a ruolo di elemento decisivo. Naturalmente il prototipo, l’ur-film è Eat pray love, quello in cui Julia Roberts torna alla vita proprio davanti a una pizza in Italia (che poi il cibo sia solo il primo, il più basso gradino di un’ascesa spirituale che progredisce verso la preghiera e infine l’amore, a noi epicurei non ci ha mai offeso).
Ma insomma, è vero? Il cibo italiano sta colonizzando il mondo (o meglio, gli USA)? Da un lato dovremmo essere contenti, e scagliarci contro l’editoriale che implora meno Italia. Anche se, a guardarci bene, più che un attacco al turismo letteralmente mordi e fuggi – che sarebbe anche sacrosanto – il pezzo è una critica alla ripetitività dei format televisivi.
Ma poi, se usiamo il termine “colonizzare”, con tutto il portato storico e teorico che si porta dietro, dovremmo stare attenti ai ruoli. Quando si parla di colonialismo – oggi solo culturale, per fortuna – bisogna sempre tenere presente chi è nella posizione dominante: chi colonizza e chi è colonizzato? Risulta difficile vedere l’Italia in un ruolo di preminenza, con la forza di imporre la propria visione culinaria nei 5 continenti. Piuttosto ci sembra di ricadere nella casistica dell’appropriazione culturale, tanto più che viene da un paese di forte e antica emigrazione come gli Stati Uniti, in cui si è creata una tradizione gastronomica parallela (spaghetti with meatballs anyone?). Ricordiamoci che quando gli statunitensi dicono “italiano”, intendono quello che noi definiremmo “italoamericano” o “di origini italiane” o “americano” e basta: vale per le persone, quanto per i piatti.
Però insomma, prima di protestare, e chiederci se la cucina italiana che conoscono in USA è la vera cucina italiana, magari dovremmo domandarci se esiste qualcosa come “la vera cucina italiana”. La stessa abitudine di mettere nel piatto della pasta la carne in cui si è cotto il sugo non è estranea alle nostre usanze contadine, anzi. E poi dovremmo verificare (caso per caso? Troppa fatica) se e quale immagine e sostanza dell’Italia e della gastronomia veicola ognuno di questi programmi. E infine dovremmo considerare che in ogni movimento, in ogni conoscenza, diventa inevitabile il compromesso, accettabile la banalizzazione, obbligatoria la semplificazione. O preferivamo i tempi in cui, appena valicate le Alpi, nessuno sapeva cosa fosse la polenta o la colatura di alici?
Sì, tutto sommato forse preferivamo. Quindi ha ragione Eater (come sempre): produttori di serie TV, fate i biglietti per altri posti, qui non siete i benvenuti. Fateci scoprire anche a noi cose diverse e davvero esotiche, come le meraviglie della cucina asiatica o peruviana. E lasciate qui nascosto il segreto del vero, autentico (inserire qui piatto a piacere del tuo borgo che già nel paese a fianco non sanno cos’è).