Se pensate che il successo televisivo di uno come Antonino Cannavacciuolo sia un caso, fermatevi un attimo e ripensate di nuovo. Fino a capire quanto soltanto uno come lui poteva arrivare ad essere lo chef più popolare in Italia, scalando al contempo le vette della più alta ristorazione italiana. Pubblico e critica, come si suol dire. Conquistati grazie a un’estrema, costante e generosa dedizione, la stessa che lo porta a rispondere a fiume a tutte le domande che gli vengono poste in vista della nuova stagione di Cucine da Incubo, uno dei suoi programmi di maggior successo (show Sky Original prodotto da Endemol Shine Italy), in onda da domenica 2 aprile in esclusiva su Sky Uno e in streaming su NOW.
Lui sta lì, risponde, si spende, come solo i grandi professionisti sanno fare. D’altronde è lavoro: c’è chi lo sa fare col sorriso e con la passione necessaria a metterci anche l’anima, e chi no. Antonino Cannavacciuolo, sicuramente, appartiene alla prima categoria.
Chef, quali sono le novità di quest’edizione?
“Cucine da Incubo è un format rodato, anche un po’ anziano: la verità è che le novità le deve portare chi sta nei ristoranti. Quello che abbiamo fatto quest’anno che mi ha reso felice è che abbiamo trovato tante famiglie, che per problemi diversi si trovavano in situazioni difficili, e le abbiamo aiutate. Quest’anno abbiamo fatto un lavoro ancora più mirato alla ristrutturazione delle strutture e abbiamo alzato ancora l’asticella sui piatti. Ho visto in loro grande fiducia, grande voglia di fare bene. Sopratutto quando ci sono di mezzo i figli, pronti per raccogliere il testimone dei genitori, che grazie al programma partono con quello che è a tutti gli effetti un nuovo ristorante”.
Cosa la fa arrabbiare nella ristorazione che non funziona?
“Che ci sono tanti che prendono sotto gamba il mio lavoro, quello a cui quelli come me hanno dedicato una vita di sacrifici. Mi dispiace, perché è come se non si capisse che è un lavoro difficile, faticoso, fatto da professionisti. Saper fare uno spaghetto o una scaloppina a casa non è essere cuochi. Uno chef deve innanzitutto creare un team e portarlo agli obiettivi, al credo: io credo di fare meglio. Quando questo non viene capito, sinceramente, mi fa molto incazzare”.
Come mai tante famiglie non riescono a far funzionare, dopo tanto tempo, il loro ristorante?
“C’è un passaggio chiaro per fare ristorazione bene, e sono i complimenti dei clienti. Quando alla fine del servizio ci sono i complimenti, è la benzina del motore per fare sempre meglio. Ma è proprio quando un ristoratore pensa che stia andando bene che spesso fa l’errore di non spingere più: nel momento di successo bisogna alzare l’asticella e non lasciarsi andare. Quando il lavoro è in discesa, non lo fermi più, tutti i giorni sarà sempre peggio. E poi c’è la poca dimestichezza con un mondo che cambia: le recensioni online, per esempio, possono fare veramente male. Le famiglie sono preoccupate, quasi terrorizzate: un tempo come cucinavi lo sapeva il paese, oggi invece per forza ti affacci al mondo”.
Quale percorso si può fare per migliorare un ristorante che non funziona?
“A Cucine da Incubo la cucina è sempre l’ultimo passaggio che affrontiamo. Prima viene la motivazione, che è la cosa più grande, e poi la capacità di fare spesa, risparmiando senza perdere la qualità. La verità è che io quando esco già so chi può andare avanti e chi può fare anche peggio di quello che faceva. Cannavacciuolo miracoli non ne fa, ma ho trent’anni di esperienza nella ristorazione italiana”.
Qual è l’errore più frequente che vede fare ai ristoratori?
“Sicuramente la spesa: loro pensano di risparmiare sugli ingredienti, ma alla fine quello che fanno è un danno aziendale. Va bene il risparmio: il food cost è ovviamente importantissimo per un ristorante, ma si possono fare scelte intelligenti. Anni fa andammo in un ristorante che comprava tutto bio al supermercato, spendendo ovviamente di più, e non sapeva di avere un agriturismo bio a due passi dal ristorante. Ecco, non aveva mai pensato di andare all’origine della filiera”.
Ed è faticoso girare il programma?
“In realtà sì: dopo cinque giorni torno a casa davvero stanco, perché dò tutto quello che ho, sono fatto così, sono una persona che dà tanto”.
Però ogni tanto porta a casa qualche bella esperienza, immagino: una in particolare che le è rimasta nel cuore?
“Sono passati tanti anni e ogni anno ce n’è una preferita. Però io la prima di quest’anno (a ‘L Civel di Caslbeltrame, ndr) l’ho sentita particolarmente vicina, perché anche loro sono riusciti a dare a me qualcosa a livello personale. Ho pensato ai miei figli, alla mia famiglia, a cosa significa avere un papà come me, devoto al lavoro con poco spazio per loro. Sono famiglie italiane, in fondo, con problemi che spesso abbiamo anche noi e in cui ci ritroviamo”.
Perché le piace girare Cucine da Incubo?
“Queste famiglie sono molto devote ai ristoranti, è la loro vita, davvero. Li vedo, quando cucinano accanto a me, che si emozionano, che vogliono fare meglio, imparare, che hanno passione. In particolare quest’ultima è stata un’annata bellissima, ma in generale se questo programma possiamo far ripartire delle attività in difficoltà è una cosa molto bella”.
Qual è la soddisfazione più grande che ha avuto con questo programma?
“Una delle principali è stata per mano di Maurizio Costanzo, che fece un articolo su Cucine da Incubo, facendo i complimenti al programma. Perfino una persona come lui apprezzava il nostro lavoro: per me è stato come ricevere la terza stella a livello televisivo. Un genio del genere che spende delle parole per noi: è stato davvero bello”.
Parliamo di uno dei problemi della ristorazione: la mancanza di personale. Qual è la soluzione di Cucine da Incubo?
“Non ne posso più di sentire questa storia. Mancano imbianchini, meccanici. Manca tutto, se parliamo di cucina è una cosa più mediatica e fa più rumore, ma la verità è il personale manca ovunque. Se fai dei calcoli mancano proprio le persone: la natalità diminuisce da tempo. Manca proprio chi lavora”.
Quindi non è un problema delle nuove generazioni?
“Ma per niente. Smettiamola di far passare sempre il messaggio che i giovani d’oggi non vogliono lavorare: lo dicevano già i nostri padri e i nostri nonni. Io ho dei ragazzi a Villa Crespi che a 18-19 anni hanno una grinta e una voglia di fare straordinaria. Devoti al lavoro, alla precisione, alla voglia di crescere. Hanno anche nuovi strumenti, nuove idee: vedi il tema dell’ambiente e della sostenibilitò, a me alla loro età non sarebbe mai venuto in mente di fare questi discorsi”.
E quindi?
“E quindi abbiamo la fortuna di essere un Paese di frontiera: diamo importanza alle persone che vogliono venire qui, costruiamo un percorso per loro, diamogli dignità. Sia noi che l’Europa tutta. Questo è il tema”.