In principio fu MasterChef, format importato dagli USA ma subito italianizzato e digerito dalle masse in cerca di un virtuoso mix tra thrilling, maionesi impazzite ed eliminazioni spietate. Sono passati 9 anni dalla prima edizione in salsa italica di quella che, ad oggi, resta la trasmissione gastronomica più credibile e godibile dell’ampia proposta di genere cresciuta a dismisura. Sì, perché nell’ultimo decennio, dal 2010 della monarchia di Antonella Clerici al 2020 che si chiude, il focus voyeuristico sulla cucina in tv è letteralmente esploso, trascinando un’audience sempre più ampia ed eterogenea davanti agli schermi.
Per la verità, questa tendenza bulimica ha sconfinato anche sui grandi schermi, con la realizzazione di commediole smielate con una visione dolcificata del lavoro ai fornelli.
Ma la vera, grande produzione è quella per la televisione, una realtà dalle proporzioni inimmaginabili fino a dieci anni fa.
Prima di MasterChef, spartiacque generazionale, c’erano le classiche ricette in tv e le parentesi domenicali didattiche (alla Melaverde) o folkloristiche (alla Domenica del Villaggio). Oggi c’è il mondo intero: Food Network ne è l’esempio, anche se la quantità del palinsesto tematico non corrisponde alla qualità.
Il potere dei talent
I talent hanno insegnato al grande ed eterogeneo popolo di TripAdvisor il vocabolario della critica gastronomica. Se il “mappaszone” di Barbieri è diventato un concetto pop, le dissertazioni sulla “parte acida del piatto” o l’annosa questione dell’impiattamento hanno invaso tutte le sale da pranzo. Abbiamo empatizzato col concorrente che non ha saputo pulire il rognone, o con quello che non è riuscito a sfilettare 12 branzini in 14 secondi: i food-talent hanno alzato l’asticella, insomma. E il risultato obbrobrioso, in molti casi purtroppo, è stato l’affacciarsi alla ristorazione di una generazione che da grande vuole fare lo “chef tristellato MIchelin”. Poco importa che si voglia bypassare la noiosa gavetta, tutti hanno scatenato le proprie fantasie professionali sull’ambita professione di chef blasonato.
Il mondo semi-patinato della ristorazione
Con i format sulla ristorazione, che hanno il loro manifesto in Cucine da incubo, siamo entrati nel dietro le quinte delle “ristorie pizzorante” di quartiere e ci siamo affezionati alle loro milleuna difficoltà. Oltre a MasterChef, che è stato lo sdoganamento del finedining più guardato che mangiato, questi programmi ci hanno raccontato un mondo un po’ meno manieristico di quello delle stelle Michelin. L’evoluzione del genere, partito dall’omonimo americano con protagonista il satanico Gordon Ramsey, è l’odierno e ingentilito Quattro Ristoranti, capace di spostare gli equilibri delle prenotazioni e di farci desiderare di provare un locale perché lo abbiamo visto in televisione. Potere delle millemila repliche?
Neorealismo gastronomico
All’ombra di alcuni format “pionieristici”, come ai tempi potevano essere Unti e bisunti oppure Giorgione, orto e cucina, la tendenza al 2020 è quella di ricalcare piuttosto pedissequamente degli script che hanno fatto scuola. Le food-serie di successo hanno generato cloni più o meno riusciti (solo meno, a dir la verità) omologando il tutto in un magma informe di già visto. Impossibile sostituire Chef Rubio degnamente, inarrivabile in Camionisti in trattoria (di cui consiglio il binge watching, dato che abbiamo tutti le serate libere). Questo filone ha sottolineato la questione della faida tra i sostenitori del fine-dining e il popolo verace della doppia porzione. Che poi sono le stesse che sui social si insultano tra pro e contro rivisitazione della carbonara.
Le sfide tra comuni mortali
Ne è passata di acqua sotto i ponti dalle rassicuranti tagliatelle di nonna Pina.
Se La prova del cuoco (quello condotto da Antonella Clerici, ovviamente) ha lasciato molti orfani, e dopo la lenta e inesorabile caduta nel soporifero di Cuochi e Fiamme, oggi il concorrente tipo di queste trasmissioni usa almeno 16 ingredienti per il suo piatto e sfoggia la sua personale versione della vasocottura. Questo per dire che la tendenza alla sperimentazione gastronomica è entrata davvero nella cucina di tutti gli italiani, dalla casalinga di Voghera al tinello di mia nonna. Zenzero, ramen, bassa temperatura e fermentazione: quale concorrente del 1990 si sarebbe presentato in tv con la propria versione della amatriciana scomposta se la stessa tv non avesse gettato l’amo?
I Big
Pensionato il capostipite assoluto, Carlo Cracco, che ha passato il livello ed ora è il protagonista del palinsesto parallelo dell’advertising (ma in quante migliaia pubblicità si vede?), oggi i veri capisaldi sono tre personaggi imprescindibili.
Antonino Cannavacciuolo è entrato ormai nell’immaginario collettivo: la gente sogna i suoi piatti e si regala l’esperienza gastronomica al suo ristorante come regalo di anniversario.
Alessandro Borghese, da buon prezzemolino della food-tv, ha all’attivo una sfilza di format di genere più o meno riusciti, ma alla fine ci ha conquistato per sfinimento.
Benedetta Parodi, con il suo sorriso svampitello e il rischio sottile ma costante di mandare a fuoco i set televisivi, è diventata la fata turchina dei buongustai. E la regina dei libri di cucina.
In tempi di pandemia…
Sembrerà retorica, ma oggi che siamo costretti all’immobilità e alla reclusione solitaria, il cibo raccontato in tv attraverso l’ottica del viaggio, della gita fuoriporta, della visita a porte chiuse del ristorante e dell’esplorazione socio-gastronomica è un toccasana. Il comfort food, che ci ha aiutato nel primo lockdown tra panificazione e follia da lievito madre, oggi si trasforma in comfort tv. Vedere Chiara Maci col sorriso che passeggia in “Italia a morsi” mette in pace col mondo e fa venire pure la lacrimuccia.