La Trattoria Bepi già 54 si trova in Campo Santi Apostoli, che non sfugge alla sorte dei luoghi nel cuore di Venezia, tra aneddoti e frammenti di storia del passato, a metà tra il tradunt e la cronaca reale.
Prendiamo la chiesa, ad esempio: si narra che sia stata costruita nel ’600 dopo che i 12 apostoli comparvero in sogno a S. Magno ordinandogli di costruire un tempio in loro onore; passiamo al campanile: pare che durante la costruzione un prete della chiesa scivolò e cadde dalla cella delle campane, salvandosi solo perché le sue vesti si incastrarono alle sfere dell’orologio. Vogliamo parlare del palazzo che si affaccia sul campo? Ebbene, fu del doge traditore Marin Faliero che venne decapitato per aver cercato di diventare signore unico della città. Se il passato si ferma al “si dice” la ricerca di percorsi gastronomici ha bisogno di certezze: per questo, basta infilare la calle che si apre a sinistra guardando il campanile, ed ecco il nostro storico indirizzo cittadino, trattoria qui dagli anni ’60.
A guidarla oggi è Loris, figlio del proprietario e fondatore: e uno degli elementi a fare la differenza e a costruire l’identità del luogo – seguendo il principio per cui la trattoria archetipica è anche il suo oste – è proprio lui, che seduce i clienti in un continuo tiro di elastico tra battute semiserie, provocazioni misurate, battute mai sopra le righe e competenza lasciata emergere in modo sornione.
A chi si chiedesse il perché del 54, forniamo due risposte. Una ufficiale e più sobria, l’altra ufficiosa ma vera e decisamente più colorita. Nella ruota di Venezia del Lotto, il numero 54 corrisponde alla merda (niente giri di parole, così è) alla quale viene associata la fortuna. Quindi, ricevuto in dote dal padre un nome simile per il locale, viste le sorti felici dello stesso nel corso degli anni, Loris ha deciso di mantenere quel “già 54” nel nome. Ora la versione per nasi meno raffinati: quando il padre di Loris aprì il locale, i primi avventori del mattino erano gli addetti alla pulizia dei pozzi neri, che un tempo veniva fatta a mano. Riconoscibili per la scia odorosa che li accompagnava, divennero una sorta di portafortuna per il locale, che rese loro omaggio abbinandoli al numero del lotto corrispondente.
Ambiente e servizio
Scommettiamo che a Guccini, cantore delle osterie di fuori porta, un posto così piacerebbe assai. Un bancone accogliente, pareti a pannelli di legno ricoperte di quadri, pentole, padelle di rame e foto autografate di artisti di cinema e teatro passati di qui, una vecchia radio anni ’50, due botti (una di zibibbo ed una di malvasia) ad accompagnare i clienti dall’ingresso alla prima saletta. E ancora, credenze con porcellane e centrini lindi, quadri della Venezia di un tempo e illuminazione giallina. Entrare da Bepi è come ritrovare l’anima autentica della città, quella che oggi si considera quasi perduta, che sopravvive solo nelle case private, nelle tradizioni familiari e nelle narrazioni domestiche in dialetto. Verrebbe da usare il termine accogliente se non fosse quasi riduttivo: qui, tra le due sale e tra i tavoli con tovaglie e tovaglioli di tessuto, verrebbe da passarci ore intere.
Del servizio s’è detto: i piatti sono spiegati ed interpretati, quasi vissuti. Non si straborda mai, però: i dettagli sono forniti non per autocelebrazione ma per mettere il cliente nelle condizioni di capire e scegliere con consapevolezza.
La carta vini privilegia i bianchi, con uno sguardo decisamente nordestino: Veneto, Friuli e incursioni in Slovenia.
I piatti
A sfogliare la carta, l’elenco di piatti già tranquillizza: pochi, ed un solido legame con la tradizione. 7 gli antipasti (8-20 euro), 7 le proposte di primi piatti (11-15 euro), 8 quelle dei secondi (15-20 euro). Trasversalmente una prevalenza accordata al pesce da cui ci si allontana solo per poco (tortelli con spinaci e ricotta e fegato alla veneziana). Se chiedete in giro vi si dirà, con un “mi raccomando” accompagnato da un sorriso d’esperienza, che gli antipasti meritano e superano il resto.
E antipasti siano, allora: tra tutti, la scelta cade sull’insalata di scampi e carciofo (peccato non essere qui in periodo di castraure, il frutto apicale della pianta, tipico di Sant’Erasmo e che si mangia in primavera, ma torneremo) che è una combinazione perfettamente equilibrata di sapori (la dolcezza dei crostacei accanto alla sapidità del carciofo tagliato a fettine) e consistenze (cedevole lo scampo, croccante il carciofo), cui un condimento ben dosato di olio e aceto arriva a dare la giusta sferzata.
Adocchiata la granseola tra gli antipasti, la rendiamo protagonista della scelta principale: un tagliolino già memorabile per come arriva al tavolo, in una scodella retrò bordata di blu, da accudire con due mani e tenere protetta da eventuali assalti da parte degli altri commensali. Calda e confortevole al pari di una zuppa invernale, seduce e piega l’olfatto ancora prima del palato: le note di burro, lievissime di aglio, lasciano spazio alla dolcezza imperiosa delle carni della granseola, granchio osticissimo da preparare. Ogni boccone è un avvinghiarsi del tagliolino alla forchetta, che raccoglie anche il più piccolo residuo di polpa. Davanti a noi un ottimo spaghetto alla pescatora (cozze, vongole, gamberi, zucchine e pomodori a tocchetti) merita certamente l’assaggio, ma la gara è vinta.
Un assaggio di un secondo (sarde in saor: marinatura perfetta a rendere le carni cedevoli e finalmente una preparazione filologicamente corretta con uvetta – molta – e pinoli) e poi via verso i dolci (tiramisù, panne cotte, biscotti con vino dolce e torte casalinghe), tra i quali si è adocchiato sin dall’inizio un illustre esponente di un passato entrato nella storia: il tortino con cuore morbido. Ebbene, reduci da versione disastrose che hanno indurito il nostro, di cuore, ci accingiamo ad un ordine che suona come una sentenza nell’arena di gladiatori. Sulla scia degli assaggi precedenti, siamo ben disposti, ma aver accumulato delusioni su delusioni ci rende prudenti. Finché, eccolo: senza crema di vaniglia a fianco, né gelato, come a gridare il proprio coraggio, il tortino si presenta con l’unico vezzo di un po’ di zucchero a velo in superficie. La base è un disco di frolla, che acquista un senso non appena, timorosi, affondiamo il cucchiaio e si compie la promessa. Il cuore fondente scivola fuori, consentendo alle note di vaniglia, di cacao e lievi di cannella, di uscire ed espandersi. La temperatura è finalmente perfetta, senza ustioni, così come l’equilibrio tra l’impasto del tortino, il cuore lavico e la frolla a dare croccantezza. Abbiamo fatto pace con il passato.
Opinione
Non è vero che a Venezia le trattorie non esistono più: sono semplicemente un po’ nascoste e si fanno trovare solo con il passaparola. Bepi 54 è una di queste e, con una proposta tradizionale, preparata con cura e misura seguendo il mercato e la stagionalità, è indiscutibilmente una delle mete che vale la pena visitare in città. Le due sale, accoglienti e calde, completano l’opera ed inducono ad una sosta prolungata, complice anche la mano del proprietario, vera anima del luogo.
PRO
- L'accoglienza fatta a trattoria
- Gli antipasti che meritano la visita