Nasce un paio di settimane fa Osteria Lagrandissima, nella “quasi-campagna” (come dicono loro) di Milano subito a nord del naviglio Martesana. Se c’era un post-modernismo nelle nuove trattorie, osterie, bistrot – la definizione oscilla in base al peso relativo che ha la cantina, dunque forse con Lagrandissima si intravedono già le basi di un post-post-modernismo.
Se il post-modernismo era un ritorno all’antico con un guizzo di nuovo, era ricerca ossessiva sui prodotti di nicchia come salvifica auto-affermazione intellettuale, era la caccia a mani nude e il brulichio a basse frequenze dei fermenti nei barattoli di vetro nascosti nell’oscurità delle dispense come elevazione – un po’ retorica – dell’ancestrale, con il post-post-modernismo assistiamo a un mezzo giro di boa. All’apparente ridimensionamento del creativismo e degli idilli idealisti per un ritorno a un classicismo più semplice e candido, indossato con sicurezza di sé.
Per capirci, ingredienti e prodotti selezionati e artigianali ci sono, ma non su quello si incentra la narrazione, intelligentemente forse, anche perché con i tempi e le tendenze che corrono mettere insieme una lista dei famosi “piccoli produttori” ci vuole una settimana al massimo. Il pane è dei colleghi/concorrenti di Tipografia Alimentare, quindi buonissimo. Nel menu compare la grande star suina del momento, il maiale tranquillo (marchio registrato, non mio sarcasmo) cremonese, che con lo stress da celebrità assoluta un po’ di tranquillità l’avrà pure persa.
Tra gli antipasti c’è l’uovo cotto morbido con pomodoro, ma non è l’uovo di Parisi, quello delle galline tranquille anche loro e appagate dalla vita, anch’esse star contemporanee e residenti in Toscana. Insomma esisteranno anche altre uova buone al mondo. È un uovo umile questo, il bagnetto d’acqua di pomodoro dà note acidule ed erbacee ma morbide, come di aceto di frutta. Sopra scaglie di pecorino e crumble di pane.
Se questo giro di boa, il ritorno al classicismo rustico e campestre, sia un pregio o un limite naturalmente dipende dal contesto e dagli esiti. Il contesto c’è tutto, l’idea di quasi-campagna che definisce l’ethos del luogo è convincente. Colori tenui e aggraziati, arredi country-minimal, dove la sottrazione non è sbadato riduzionismo ma una scelta di umiltà, in linea con tutta l’idea generale. Il cortile molto ampio offre più coperti che all’interno, in fondo una ex-rimessa (o quasi-rimessa) ospita la cantina. La musica, che di solito al ristorante è o insignificante o molesta, colora l’insperata brezza serale di quest’estate rovente di note eclettiche e gradevoli, dall’indie di Brooklyn al gypsy-jazz.
La pasta fatta in casa è il vero punto di forza. Perché non è quella della Pastamatic che butti dentro gli ingredienti e premi “go”. È fatta a mano, le tagliatelle vibrano di un ragù bianco di maiale con finocchietto molto buono seppur un tantino avaro di quantità, lasciandole un po’ anemiche. I ravioli hanno un colore puntellato bianco-off tendente al nocciola, sarà qualche farina speciale poco raffinata. Le convoluzioni labirintiche e intricate della parte esterna sono perfettamente disegnate, come l’orecchio di un neonato. La pasta, pur rimanendo sempre solida ed elastica, si alleggerisce al centro giusto quel poco per mostrare in translucenza il ripieno verde-bottiglia di tenerumi, una primizia siciliana. Se dico 11 e lode è poco.
Il servizio è pieno di buona volontà, sorrisi e dedizione. Non tutto va per il verso giusto però e sono disposto a prendere metà della colpa. Per parte mia, magari meglio evitare il sabato sera in un posto che è ancora in rodaggio. Sul vino, ci siamo un po’ arrangiati con uno dei ragazzi di sala che ci ha portati in cantina con lui, perché il sommelier non c’era. Perché il sommelier non c’era, di sabato sera, in un posto che assegna al vino grande importanza? Qualche discronia sull’arrivo dei piatti, qualche domanda non risposta, ma potete già far finta di non aver letto questo paragrafo. Sono tutte piccolezze che confido andranno risolvendosi strada facendo.
Più difficile far passare sottotono invece quello che è stato l’unico vero tonfo della serata: la terrina di anatra. La consistenza secca e argillosa del terriccio arido. Sapore inspiegabilmente inesistente come fosse fatta di un nulla solido. Un piatto da ripensare con urgenza o eliminare. Buone e rustiche le polpette di melanzane, pur senza connotarsi di pregi particolari. Fantastico il pollo, tosto e ruspante, la marinatura nello cherry ne rafforza il gusto. In accompagno verdurine sature di colore, appena scottate o passate alla griglia, una vera goduria. La frolla ai frutti di bosco è buonissima ma le nuoce un po’ la porzione e la presentazione minimal inopportunamente da ristorante stellato.
La cantina, di soli vini artigianali e naturali, è in linea con quanto si osserva a Milano nelle nuove aperture di questo tipo di locali. Cioè è ottima, ed è una buona notizia sia per Lagrandissima sia per la città in generale.
I prezzi sono ragionevoli, con un paio di soluzioni degne di nota. Ad esempio gli antipasti sono divisi in 2 fasce di prezzo, dando buona scelta a chi volesse tenersi basso con la spesa. C’è un menu fisso a 28 euro che bizzarramente comprende 2 primi, un secondo e un dolce.
Opinione
Ebbene sì, a Milano un’altra trattoria/osteria/bistrot (fate voi) con tanti ottimi vini naturali, una cucina rustica e semplice ma di qualità, e un bellissimo spazio esterno. Sarà l’ennesima, ma io personalmente non mi sono stancato di posti così e non credo me ne stancherò a breve. Qui c’è il notevole plus dell’ottima pasta fatta in casa. Il classicismo umile della cucina è sì una scelta, ma alcune cose possono passare per banali e poco significative a certi palati non allineanti all’idea.
PRO
- Ottima pasta fatta in casa, in particolare i ravioli.
- Buoni prodotti cucinati con semplicità e cuore.
- Terrazza favolosa.
- Notevole cantina di vini naturali.
CONTRO
- Alcuni piatti poco significativi, con almeno un passo falso eclatante: la terrina di anatra.