Chiedete, a Roma, chi sono Betto e Mary. E preparatevi, perché se da una parte vi decanteranno il posto come compendio della più genuina romanità sciogliendosi in peana sulla coloritura dei tempi andati, un’altra nutrita fazione sarà pronta a intimarvi di girare alla larga da quel casino. La nostra recensione, forse, farà chiarezza sul punto. Certamente, per molti di voi, sarà una scoperta.
Il nome lo conosco da anni: anni in cui non ho guidato, e complice la dislocazione non esattamente comoda del locale, in linea d’ATAC (cit.), qui non sono mai venuto.
Adesso guido, e per di più, scrivo di trattorie: mi tocca quindi, il posto cult, andiamo da Betto e Mary e scopriamo dove sta la verità.
Il locale
Betto e Mary sta a TorPigna. Anzi no, sta a Certosa, un agglomerato di case basse (e un tempo abusive) sparse a villaggio su un fazzoletto di terra tra la ferrovia Roma-Napoli e il resto della città; chiuse come in un pugno tra la Casilina, via Filarete, via degli Angeli.
Nel quartiere che mai si gentrifica, ma cambia colori di pelle e botteghe e religioni, Betto e Mary è al suo posto: un’isola resistente, che se non altro per la sua reputazione para-istituzionale di “ultima trattoria romana”, e l’immagine ostentata da robivecchi raffazzonato, incarna una autenticità di luogo popolare capitolino forse non del tutto reale, di certo quintessenziale.
All’imbocco della sua traversina, si presenta con un portone di casa in ferro, i vetri bottati gialli, sopra una decalcomania in bruttissimo font anni Novanta col nome, la “&” che congiunge i due titolari e i loro destini inscritta in una stella. Attorno all’entrata, un’insegna in legno scolpito disposta perimetralmente a mo’ di timpano, sulla seconda anta, un’altra decalcomania – in font più brutto del primo – recita “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”.
Ma senza paura entriamo.
L’impatto è come ci si aspetterebbe, anzi di più: si viene precipitati subito in “Fracchia, la belva umana” (anche se mancano li peggio stornellatori) o ne “I nuovi Mostri”, la romanità, quella ‘gnorante, tanta e tanto stereotipa che mezzo ti soffoca, alle pareti la polvere e l’horror vacui di quadri da mercatino, fiaschi, sci, vecchie insegne, cravatte abbandonate per scommessa, per principio o per antichissimi addii al celibato, peluche, fotografie, ritagli di giornale, strumenti musicali, targhe, carte.
I coperti (tovaglia in carta, tovagliolo in carta, posate di casa, bicchieri spessi Duralex) sono distribuiti su tavoloni sociali che ospitano, gomito a gomito, diversi gruppi di commensali; con buona pace del coronavirus.
La sala principale, con la boiserie a listelloni, i neon bianchi e il forno a legna impiegato per le cotture alla brace, lascia spazio sul fondo a una verandina semicoperta, che definire “giardino d’inverno” sarebbe forse troppa ambizione, ed infine ad un’altra saletta, dominata da un grande affresco che rappresenta una taverna. Vi si legge “Da Betto e Mary – La Vera Cucina Romana”.
I camerieri sono sportivi, scherzano, anzi no, sono scazzati e borbottano e mi sa che sotto sotto ogni tanto pure te mannano affanculo. Scorbutici? Boh, it’s the game, baby. Non è un bene né necessariamente un male: è così e basta, e allora stacce, e comunque il tutto è mantenuto in qualche modo entro i limiti decorosi dell’immagine dell’oste burbero, senza sfociare mai nel modello suburra (o quasi: perché il bagno too fai a casa, ER CESSO è de là).
Il menu
Il menu è declamato a voce. Vuoi il cartaceo? È affisso fuori. La scelta è vasta, una decina di antipasti (tutti a cinque euro), altrettanti primi (a nove o dieci euro), otto secondi della tradizione (dai nove ai tredici euro, quindici per il “misto romano” con sei diverse proposte) cui vanno aggiunte una decina di proposte di carne cotta al camino (otto-tredici euro). Contorni e dolci del giorno a cinque euro.
Si beve il vino della casa, che fa senz’altro parte dell’esperienza ma che se non siete veramente animati da spirito di taverna, o se non vi piace il grossolano masochismo dell’acqua rossiccia che vira in aceto, vi potete tranquillamente risparmiare.
I piatti
Diciamo che di posti più o meno intenzionalmente “brutti, sporchi e cattivi”, nel pantheon delle rugantinesche romanità, ne abbiamo visti; ma non sempre (anzi, molto poco spesso) alle farsate dell’ambiente da taverna fa da controcanto una cucina autentica.
Almeno sulla carta, qui è diverso: nel menu fa la comparsa il cavallo in ogni forma, ed un elenco di interiora di bestiole varie da far impallidire qualsiasi atlante anatomico di zootecnia.
Solo l’assaggio potrà dire se però è tutto fumo, o se dalla cucina e dalle braci esce anche un po’ d’arrosto.
Antipasti:
Coppiette di cavallo. Sorelle antiche, anzi progenitrici ormai introvabili, delle più celebri stringhe essiccate di maiale; qui sono di casa e le cerco da molto tempo. Scure, nere, piene di ferro, si presentano come una sminuzzata di pezzettini poco invitanti sul piatto di ceramica bianca. Assaggio: le avessi provate ad occhi chiusi, avrei detto fosse una pietanza cinese. Dominate dal coriandolo, dal pepe, la carne tenace e masticabile ma morbida, solubile, trasporta dolcezza e immancabili congiunture di ferritina ben imbrigliate dalla speziatura. Ottimo inizio.
Segue una scamorza affumicata panata e fritta: dritta, pura e semplice, non è niente di ciò che non dovrebbe, per contro è tutto ciò che le tocca essere. Ben dorata, mediamente filante, affumicatura spinta. Un ritorno alla perduta innocenza.
Collaudiamo la brace con la lingua arrostita: una mina, morbida e succulenta, giustamente abbrustolita dal fuoco di legna, servita brutale su un piatto, affettata a tranci spessi in modo da riconoscerne la provenienza anatomica (si vede che è una lingua: c’è anche la puntina, e a momenti fa le smorfie).
Parentesi: il posto è grezzo, la cucina fin qui è ben fatta, folk, nuda, le materie prime – pur lontane da ogni possibile infiocchettamento di provenienze, certificazioni, bio DOP IGP – sono accettabili in media, da buone a molto buone sulle carni, che compongono comunque il 70% del menù.
I primi vengono serviti in libera combinazione, ossia si sceglie il formato di pasta preferito ed il sugo con il quale lo si vuole accompagnare. Uniche eccezioni: i ravioli ripieni di cavallo, che vengono serviti solo in bianco o col sugo di pomodoro, e che pertanto, per quanto stuzzicanti, stavolta salteremo.
Optiamo invece per i rigatoni fatti in casa acqua e farina, declinati su due classici della romanità: alla carbonara, e con il sugo di pajata.
Entrambi dimostrano una concentrazione alta, sono incazzati, intensi, sapidi al limite: ricordo dove siamo, che il sale, dicono i vecchi, “costa poco”, che la cucina popolare è la cucina della fame e dunque il culto del gustoso spinto. Giusto così.
La carbonara è ricca di uovo giallo, piena di pecorino, il guanciale tostato e sbruciacchiato q.b.: ottima, cremosa ma non runny, omogenea, decisamente verace.
La pajata è tagliata a pezzi grossi, traboccanti di chimo, immersi in un sugo di lunga cottura che dell’animale ha assorbito tutte le virtù sacrificali: la consistenza appena chewy dei trancetti di intestino medio di vitello – perché ricordiamo, di questo si tratta, benedetti i poveri di Testaccio di tant’anni, e i macellari – fa il paio perfetto con quella dei rigatoni prodotti in cucina, che vi fanno il verso e ne imitano la texture.
Nel frattempo abbiamo fatto amicizia con le ragazze con cui dividiamo sostanzialmente il tavolo, divisi da una manciata di centimetri, e ci fanno assaggiare un cubetto della loro coppa di testa condita: bella consistenza, gelatinosa e soda, profumata di arancia.
Per i secondi, cominciamo con una gargantuesca porzione di pannicolo di cavallo alla brace, che riprende i topos già sperimentati con la lingua di manzo: ossia il recupero di tagli di carne secondi e terzi, trattati con una sapienza inattesa, anzi in aperta opposizione alla manipolazione approssimativa che ci si aspetterebbe. I piatti, nella loro semplicità e mancanza di pretese, riescono talvolta a tirare fuori consistenze e sapori che staccano la media dei concorrenti.
Si procede con il “misto romano”, davvero un trattatello sulle interiora e i tagli poveri, sventratura splatter di una intera fattoria: comprende trippa alla romana, coda alla vaccinara, codina di vitello alla cacciatora, animelle al prosciutto, pajata d’agnello in umido, coratella con le cipolle.
Nonostante sia un piatto un po’ caotico e buttato lì, più di ogni altro nel corso del pranzo, le pietanze che lo compongono sono distinte in modo da poterle comunque provare singolarmente, senza che i sapori si accavallino troppo. Tutte le preparazioni sono presentate in un guazzetto, decisamente abbondante ma utile se non necessario, parte legittima della pietanza, grasso ma non gratuitamente unto.
Riassumendo in ordine di gradimento, è eccellente la midollina d’agnello, che per me altro non è che una “stigghiola” in umido dall’acceso e azzeccatissimo finale piccante; così come sono tra le migliori provate a Roma le due interpretazioni della coda (vivida di pomodoro ristretto, rustica di sedano la vaccinara; profumata di vino bianco e rosmarino la cacciatora).
Saporite ma un filo troppo cotte e grasse le animelle, che tendono al gommoso, analoga la sorte della coratella che, al netto di un ottimo sapore delle interiora e della caramellatura di cipolle, risulta asciutta e gessosa in alcuni pezzi. Bocciatissima invece la trippa, cotta fino a disfarsi, immersa in un sugo troppo lento e dominata da uno spiacevole retrogusto di detersivo dovuto, presumo, all’aggiunta di menta secca.
Puntarelle con le alici semplicemente perfette, condimento bilanciato, ricche di alici quanto di aceto, verdi, croccanti: da fare invidia alle reinterpretazioni di numerosi chef blasonati.
Concludiamo con un tiramisù che per una volta è un vero capolavoro: il mascarpone vellutato e spesso, ricco di caffè e cacao, la base inzuppata a un punto di consistenza ideale tra il presente e lo scioglievole non appesantisce nonostante l’apporto calorico notevole, e il pasto da leoni appena consumato.
Nota di merito speciale alla fase digestiva, che a dispetto delle pietanze impegnative si rivela inaspettatamente agevole, e allo scontrino finale, che anche nell’ambito di esercizi concorrenti della medesima fascia si rivela davvero difficile da battere: ricordiamolo, la capacità di offrire un pasto a prezzi popolari è una componente essenziale dello spirito autentico della trattoria, eppure molti ristoratori e recensori la tralasciano volentieri.
In definitiva
Se è la trattoria autentica, alla vecchia, che cercate, ebbene sappiate che questa esiste: ricordatevi però che nella Roma popolare degli anni Cinquanta non esistevano i controlli ossessivo-compulsivi delle ASL né le paturnie da recensori indignati di Tripadvisor. Se siete pronti ad accettare il compromesso e ad inoltrarvi in un territorio ampiamente deregolamentato, che per fortuna resiste, Betto e Mary è un indirizzo imperdibile in grado di proporre la cucina romana più popolare in una versione integrale, ardecore e assolutamente “uncut” che potrebbe mandarvi fuori di testa. Astenersi ipocondriaci, vegani e gastrofighetti.
Informazioni
Da Betto e Mary
Indirizzo: Via dei Savorgnan 99
Sito web: https://www.facebook.com/pages/Betto-E-Mary
Orari di apertura: Lun-Dom 12.30-15, 20-23
Tipo di cucina: tipica romana, interiora, carne alla brace
Ambiente: taverna con horror vacui
Servizio: mavedimpoquesto