Apprezzare Al Matarel, trattoria di Milano vecchia scuola nei pressi di corso Garibaldi, è impresa facile e difficile allo stesso tempo. Facile perché se uno cerca la cucina milanese tradizionale sic et simpliciter, e dico tutta, tutto il repertorio, a mo’ di archivio storico in versione fumante e commestibile, qua la trova. Difficile perché, per apprezzare Al Matarel, serve anche una sorta di reset mentale, quando la maggior parte di noi abitanti milanesi è ormai assuefatta a forme nuove di trattoria, o a vecchie trattorie che in certe rinnovate vesti cercano di entrare talvolta a forza. Dove anche i piatti della tradizione devono sempre mostrare un qualche sforzo di differenziazione, un qualche asso nella manica da tirar fuori al momento opportuno.
Non parlo di rivisitazioni o interpretazioni contemporanee, a queste fa capo un’altra categoria ancora. Ma piuttosto di quei posti che rientrando nei canoni tradizionali pur tuttavia ambendo all’elevazione, allo smarcarsi dallo stretto paradigma casereccio e in qualche modo a trasmettere l’idea che hai fatto bene a uscire a cena stasera. Perché la mantecatura del mio risotto giallo tradizionale, segreta, non la sai fare a casa. Perchè la cotoletta fritta, altissima e succulenta, da carne di razza certificata, non la trovi dappertutto. Per quel mix di erbette e aromi, segreto naturalmente, che rende unica anche la solita semplice insalata tiepida di nervetti.
Abbandonare questo bagaglio di aspettative sulla porta di Matarel, sullo strettissimo marciapiede in una stradina appartata che collega Brera con il parco Sempione, è una necessità. Nel bene e nel male. Perché nulla di tutto ciò ha sede al Matarel, dove piuttosto si incontra una cucina di servizio, un’illustrazione museale della gastronomia milanese, un percorso che agisce sulle leve dell’interesse storico per la cucina lombarda, più che su quelle dell’incondizionato appagamento sensoriale in sé.
Più che per il risotto giallo, io verrei qui per la cassoeula, lo stufato di maiale e verze ormai non facile da trovare, che è un po’ come se a Bologna fosse raro trovare le lasagne in osteria. La cassoeula del Matarel è molto rustica, abbondante, ricca di pezzi di cotenna, appiccicosa e densa quanto basta. Il risotto è onesto, fa quello che deve fare, rappresenta Milano, nessuna ricerca sull’onda perfetta, sul punto di cremosità memorabile. Nessun fregio sulla provenienza e qualità dello zafferano usato. È l’archetipo del risotto milanese, senza guizzi e senza sorprese. Se qualcuno dicesse senza infamia e senza lode, non saprei come ribattere.
L’ossobuco è sontuoso, abbondantissimo, la gremolada (il classico condimento a base di aglio, limone e prezzemolo) si disperde nella pozza di sughetto su cui alloggia. Il sugo poteva essere più denso e più ristretto, ma la cottura della carne è ottima e nel complesso il piatto fa una certa scena. I grossi tocchi di carne precariamente ancora attaccati all’osso, quasi immortalati nell’eterno istante in cui stanno per staccarsi, danno al piatto una qualità cinetica, in movimento, che spinge all’azione e innesca l’istinto predatorio e l’acquolina.
Le porzioni sono enormi, ma non siamo davanti al classico posto “mangio tanto spendo poco”. Si spende abbastanza, nella media delle trattorie milanesi con un minimo di reputazione. Il menu consultabile in loco stranamente è molto più ampio di quello online e contempla tutti i piatti della tradizione lombarda. Tutti. Tortelloni fatti in casa con sugo di stracotto, insalata di nervetti, lumache in umido, rane fritte, trippa alla milanese, Rustin Negàa (nodini di vitello arrosto), stracotto di manzo.
La cotoletta è offerta anche in versione alta, ma quella sottile è veramente molto sottile. La carne si sente poco, la panatura è un po’ fiacca, quella nuvola di vapore carica dei sentori bronzei di pane tostato è non pervenuta. I mondeghili sono una sorpresa. In versione invernale, si presentano come grossi involtini di verza ripieni di macinato e irrorati da una densa e brillante salsa al pomodoro. Per di più con polenta di contorno. Un piatto sostanzioso, magari da condividere, da non confondere con il minimalismo delle classiche polpettine nella declinazione comune di questo piatto.
L’ambiente è perfettamente in linea con le intenzioni, la storia e lo stile del luogo. Il soffitto rosso acceso puntellato di lampadari di vetro dai colori sgargianti è l’unica eccezione a quanto per il resto si presenta come un vero tuffo nel passato. Un passato indefinito e generico ma capace di infondere una simpatica nostalgia. Si percepiscono qua e là alcuni momenti salienti della storia lombarda, quindi italiana. Abbassando lo sguardo da un proclama del feldmaresciallo Radetzky agli abitanti del regno lombardo-veneto appeso al muro, ci si può soffermare sul tavolo sottostante e immaginare Bettino Craxi al lavoro sulla cotoletta, in un dei suoi appuntamenti fissi del lunedì, negli anni d’oro della Prima Repubblica.
Opinione
Uno degli ultimi ristoranti davvero autenticamente milanesi, senza invenzioni, senza rivisitazioni. Di tanto si fregiano quelli del Matarel, ed è vero. Nel bene e nel male. La carrellata dei classici lombardi in menu è davvero completa, gli esiti però piuttosto scialbi in più di un caso. Bene l’ossobuco, abbastanza bene la cassoeula. Ambiente e atmosfera simpaticamente fermi nel tempo.
PRO
- Ambiente e atmosfera sono un tuffo nel passato, da vera vecchia trattoria.
- Ossobuco gigantesco e molto buono.
- Tutti i piatti lombardi presenti in menu.
CONTRO
- La maggior parte dei piatti si assesta a un livello medio.