Si potrebbe parlare de I Conti con l’oste di Tommaso Melilli (Einaudi, 17,50 euro) come di un libro fatto di incursioni in note trattorie italiane (e non solo), restituendone un passo da prevedibile reportage – ma anche se la forma potrebbe a volte spingermi verso questa tentazione la circostanza mi porterebbe a semplificare ingiustamente il contenuto di questo libro, che offre molto di più e in modi molto varii e sottili.
Melilli è bravo, partendo dalle tante visite che compie al servizio di chef scelti con cura (come Giovanni Passerini dell’omonimo Passerini a Parigi, Fausto Franco e Federico Malinverno del Caffè la Crepa di Isola Dovarese, Diego Rossi del milanese Trippa, Juri Chiotti di Reis, Paolo Lopriore oggi al lavoro al Portico di Appiano Gentile e diversi altri), è in grado di regalarci prospettive e ampie visioni di mondi.
L’ideale di cucina che si ritrova a inseguire e ad ammirare Melilli, che è a sua volta uno chef, è quella della tradizionale osteria italiana, e il suo lungo apprendistato parigino gli consente di mettere a fuoco con precisione le caratteristiche che distinguono il nostro approccio al mangiar fuori da quello degli altri.
Cosa distingue un ristorante italiano
La peculiarità della ristorazione italiana, secondo Melilli, è quella di non presentare uno iato tra la cucina casalinga e quella della trattoria – le altre tradizioni gastronomiche conoscono una divisione netta tra ciò che si mangia in casa e ciò che si mangia al ristorante (un giapponese non penserebbe mai di mangiare il sushi in casa, ma la stessa distanza concettuale si riscontra anche per un francese, mutatis mutandis), noi no: al massimo deleghiamo a dei professionisti la preparazione della pizza e dei fritti.
Questa continuità tra ciò che prepariamo in casa e ciò che mangiamo al ristorante porta con sé diversi corollari: il primo è che da noi non è affatto detto che si mangi meglio al ristorante (l’esempio della carbonara è emblematico – discorso che del resto vale per tutti i primi piatti della tradizione romana, che andrebbero preparati rigorosamente espressi e che non del tutto espressi frequentemente possono venir approntati nel campo della ristorazione professionale); un altro è che noi italiani siamo buoni cuochi (anche se quasi nessuno di noi è per indole uno chef, a detta di Melilli); o ancora che quello che cerchiamo in una cena fuori va probabilmente molto al di là del cibo, arrivando addirittura l’autore a riconoscere nella convivialità da osteria uno degli ultimi baluardi della convivialità stessa, della socialità addirittura, altrimenti ormai altrove sgretolata e che con pochi semplici gesti riesce invece a continuare a perpretarsi protetta dalle mura di una trattoria.
La trattoria cambia il luogo in cui vive
All’osteria (per Melilli la differenza tra trattoria e osteria è ancora significativa, nella prima – prevalentemente – si mangia, e nella seconda si beve) ci andremmo insomma per trovare il respiro familiare che evidentemente avremmo smarrito dove sarebbe dovuto essere, cioè a casa.
Le visite agli chef ci mettono davanti una miriade di aneddoti deliziosi, come la Ligue des Champignons con cui si apre il volume – un torneo di calcetto carbonarissimo tra i locali parigini –, oppure la creazione di tradizioni letteralmente nate dal nulla, come quella di un salame d’oca che presto si trasforma in sagra sebbene fosse stato portato in un certo paese da un professore appena un paio d’anni prima; ma in tanto godibile moltiplicarsi di curiosità ciò che più mi ha colpito sono alcune osservazioni che fa lo stesso Melilli, come quella che parte dall’esperienza di Juri Chiotti che col suo lavoro sta cambiando il volto del paese di montagna in cui si è installato. La posizione di un ristoratore è in effetti in questo senso vantaggiosa, un ristorante può diventare facilmente un accelleratore di cambiamento per un piccolo territorio, perché una trattoria è al centro di una rete di contatti – da un lato può stimolare il lavoro dei fornitori, dall’altro può dettare una linea che può essere seguita da altri locali della zona e riconosciuta da chi viene da fuori.
La ricerca di materie prime di una trattoria che produca almeno in parte ciò che propone in menu può portare dunque a modificare il territorio in cui insiste, recuperando pascoli abbandonati, per esempio, o dando lavoro a qualche piccolo produttore di formaggi e salumi, riportando in vita e ridando vigore a comunità che magari da qualche decennio si stavano addormentando. Chi volesse dare un’occhiata all’inizio di un processo analogo potrebbe andare a vedere cosa sta facendo Gabriele Bonci nel Rifugio Alpi Apuane che ha rilevato a Careggine (questo ve lo sto suggerendo io, ma credo che Melilli sarebbe d’accordo).
Nei Conti con l’oste c’è naturalmente molto altro, e nel molto altro che c’è è da segnalare l’abilità narrativa dell’autore, che sa guidarci con passione nei territori che ama. Parafrasando una delle scene finali del libro concludo dicendo a Melilli che la sa davvero preparare questa frittata di parole, e consiglio a tutti di mangiarla mentre aspettiamo di discutere di uno dei tanti spunti che ci offre seduti attorno a un tavolo della nostra osteria preferita.