È da poco uscito un prezioso per quanto esile libro intitolato Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro (Laterza, 9,00 euro) in cui Massimo Montanari, storico medievale e dell’alimentazione all’Università di Bologna, si pone come obiettivo quello di capire come si è arrivati, nel corso del tempo, alla definizione di quello che – oggi – può essere considerato un vero must indentitario nazionale, ovvero un piatto di spaghetti al pomodoro, con parmigiano e due foglie di basilico, cioè una di quelle cose che riteniamo profondamente connaturate alla nostra cultura, illudendoci forse che ne siano parte da sempre.
Per mettere insieme il nostro piatto di spaghetti al pomodoro Montanari parte da molto lontano, e in particolare dall’invenzione della pasta, che nacque come una variazione del pane, sottile, non lievitata (o talvolta sì) e magari essiccata per consentirne la conservazione. “Questo impasto sottile – dice lo storico – steso col matterello o lavorato a mano per ricavarne forme allungate o di altro tipo, i persiani in epoca sasanide lo chiamavano lakhsha”. Un secondo termine – rishta – indicò un tipo di pasta tagliata a strisce o a fili (come le tagliatelle o gli spaghetti). “Il termine sembra antichissimo: la lingua iranica forse lo derivò da risnatu di cui è rimasta traccia in una tavoletta cuneiforme di quasi 4000 anni fa, che conserva ricette di tradizione accadica e sumerica – le più antiche civiltà agricole del mondo”.
La pasta nel mondo classico
La strada per arrivare a quello che noi consideriamo un piatto di spaghetti è ancora lunghissima, nel mondo greco-romano infatti era quasi impossibile immaginare la pasta come “genere” alimentare a se stante, perché in quelle culture, in cui esisteva una grande varietà d’uso dei cereali, se ne riconoscevano però solo due tipologie piuttosto fisse: il modello del pane e delle focacce, e il modello delle minestre. Un nuovo sistema per cuocere la pasta – finalmente nell’acqua (e non al forno o fritta, come avveniva nel mondo classico) arrivò dal Medio-oriente, che discuteva nel III secolo d.C. la possibilità di cuocerla in questo modo e lo faceva nel Talmud di Gerusalemme, che quindi testimonia già in quell’epoca l’idea di poterla bollire (anche se la soluzione era vagliata col fine di escluderla dal campo del sacro).
Montanari poi trova il tempo di sfatare un mito durissimo a morire, quello che pretende, partendo da resoconti male interpretati di Marco Polo, che l’idea stessa della pasta arrivi dalla Cina (e arrivi dalla Cina nel Medioevo, quando invece abbiamo visto che la parabola della pasta di grano duro, ovvero la nostra, era partita nel bacino mediterraneo già da millenni). In effetti le due tradizioni, quella cinese e la nostra, sono indipendenti e diverse.
Il primo pastificio della storia
Tornando a noi, a un certo punto dell’evoluzione del genere pasta ebbe particolare successo l’idea, fino allora non necessariamente diffusa, di far seccare la pasta, specialmente quella tirata, per permetterne una più lunga conservazione, idea i cui primi promotori furono i musulmani. Nella Sicilia del XII secolo – dove la cultura araba ere penetrata con forza nei secoli precedenti e in cui dal tempo della Roma antica la coltivazione del grano era diffusissima – troviamo un eccezionale documento che attesta la presenza di una vera industria della pasta secca, in grado per altro di gestire il ciclo produttivo in tutte le sue fasi. A descriverci gli stabilimenti di questo antichissimo pastificio è il geografo del mondo arabo al-Idrisi, che chiama la pasta itriyya (un nome, introdotto dagli ebrei secoli prima, che ebbe una lunga fortuna), riferendosi in particolar modo alla pasta di formatto lungo e stretto. Dalle coste siciliane la pasta veniva esportata via mare in molte zone del Mediterraneo, a partire dalla Calabria, arrivando a “tutto il sud Italia e in altri paesi musulmani e cristiani”, in cui, continua al-Idrisi “se ne spediscono moltissimi carichi di navi”.
Non è un caso se fino al Cinquecento la Sicilia sarà ritenuta il vero hub internazionale della pasta e, fino ad allora, i siciliani verranno identificati con l’appellativo di “mangiamaccheroni”, titolo che da quel momento in poi sarebbe stato destinato ai napoletani. Non c’è spazio qui per ricostruire tutte le interessantissime osservazioni di Montanari, basti però specificare che a un certo punto maccheroni era un termine generico che indicava la pasta come alimento, soprattutto nei suoi formati allungati, quelli che possiamo considerare affini agli spaghetti (che a Napoli non a caso per lungo tempo sono stati chiamati maccheroni). Pensate ancor oggi alle varietà di formati che, in diverse regioni, rispondono a questo nome (si va dalle mezze maniche, ai maltagliati, fino ad arrivare ancora agli spaghetti – proprio in Campania).
Verso il 1300 in Italia si sviluppa un’idea rivoluzionaria e, questa sì, destinata a condizionare quella che sarebbe diventata la nostra identità nazionale, vale a dire il principio secondo cui la pasta potesse essere non solo un ingrediente tra i tanti ma un genere alimentare a se stante. Prima era usata sostanzialmente come companatico, come a volte può capitare di trovarla ancora all’estero, servita in un piatto magari scondita (e scotta) accanto a delle verdure e della carne (mi è capitato di vederla proporre in questo modo in Francia e a Dublino). Quella che a un italiano può parere una curiosa aberrazione è in realtà un uso arcaico e ancor oggi radicato in culture che non hanno messo la pasta al centro della propria gastronomia. Che poi sono tutte le altre: solo in italiano, osserva infatti Montanari, il termine “pasta” è assoluto ed espresso sempre al singolare, rivelandosi capace di esprimere la totalità delle esperienze legate a questo nuovo alimento. “Dopo la svolta medievale – spiega Montanari – le minestre di pasta saranno il luogo per eccellenza della diversificazione gastronomica e, proprio per questo, il simbolo e la metafora di una cultura come quella italiana, basata sulla diversità delle tradizioni locali”.
La cottura
Per secoli la pasta era destinata a una cottura lunga, anche lunghissima, di ore, e finché non fu ritenuta un piatto a se stante questo tipo di cottura era apprezzato e consigliato nei ricettari, le cose cambiarono quando la pasta trovò in Italia il suo promesso sposo, l’anima gemella che non l’avrebbe mai più abbandonata: il formaggio. Acquistando dignità di piatto principale e guadagnando in sfumature di gusto grazie agli abbinamenti coi formaggi (e non solo: all’epoca spesso l’opera veniva completata da spezie dolci, quali la cannella), si cominciò a pensare di cuocere meno la pasta, per esaltarne il potenziale materico, godere più della tenacia della sua fibra sotto i denti, distanziandone la consistenza da quella dei suoi condimenti, nasceva insomma la cottura “al dente”, altro termine intraducibile nelle altre lingue (che infatti usano la dizione italiana).
Il cacio sui maccheroni e il paese del Bengodi
È un altro segnale che ci racconta come la storia della pasta sia legata a doppio filo a quella del formaggio, “soprattutto il formaggio stagionato, la cui natura ‘secca’, in perfetta osservanza delle regole dietetiche [medievali, ndr], era ideale per bilanciare la natura ‘umida’ della compagna, grattugiandolo fine (o sfrangiandolo in fettucce) per favorirne il rimescolamento con la pasta ancora bollente”. Questo colpo di fulmine gastronomico – che leggendo Montanari mi sono convinto essere la vera e segreta fatality della cucina italiana – ha segnato la fortuna del grana in tutte le sue declinazioni o per meglio dire quella ancor più ampia dei formaggi a pasta dura (oltre al parmigiano rientrano nel novero i vari tipi di pecorino, la ricotta salata stagionata, il caciocavallo e una serie di corollari tendente a infinito). Non è un caso se il cacio sui maccheroni entrò subito in proverbio, così come entrò nei vagheggiamenti letterari: nel Decameron, in compagnia dell’ingenuo Calandrino, Boccaccio ci scorta nella contrada del Bengodi, dove il cibo è assicurato in grande abbondanza a tutti, e nel cui esatto centro “eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la qual stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli, e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gettavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva”.
Siamo ancora lontani dalla pasta al pomodoro che cercavamo all’inizio, anche perché manca appunto ancora il pomodoro, ma non solo, manca anche l’olio – raro da trovare lontano dalle zone di produzione e inaccessibile per moltissime delle tavole contadine. La pasta era condita col burro o addirittura con lo strutto, e così è stata per secoli (è un miraggio anche un altro di quelli che consideriamo tra gli immortali della cucina italiana: la dieta Mediterranea, che diventerà uno standard diffuso non prima del Novecento). Per l’arrivo del pomodoro dobbiamo aspettare la scoperta dell’America e la sconfitta dei pregiudizi che il pomodoro inizialmente ha portato in dote. Ritenuto simile alla melanzana (non a torto, sono due solanacee) ne ha pagato la familiarità: la mela insana era considerata di difficile digestione e latrice di “cattivi umori”, e il pomodoro, che le era parente, non avrebbe provocato effetti troppo diversi. Inoltre si trattava a tutti gli effetti di un frutto, perché avesse successo come pumarola occorreva ridurlo in salsa (e quindi in corseva) e ci volle del tempo.
La salsa spagnola
In effetti la prima salsa al pomodoro giunta in Italia era detta “salsa spagnola” e sorprendentemente conteneva, in una ricetta piuttosto stabile nelle cronache dell’epoca, l’aceto. La prima salsa al pomodoro era insomma un gazpacho (l’ho scoperto con non poca meraviglia), e non era considerato tanto adatto a condirci la pasta – non a torto direi. Ci volle ancora molto perché venisse sottratto l’aceto alla salsa di pomodoro, così come ci volle molto perché l’olio si diffondesse ampiamente (mentre il successo del peperoncino, spezia che con la sua piccantezza solleticava i palati più popolari con un gusto fino ad allora ritenuto da ricchi, fu istantaneo), e altrettanto ci volle – una volta elaborata una conserva di pomodoro, condita con olio, peperoncino e qualche odore (ma il basilico durò fatica a imporsi, erano preferiti timo e maggiorana inizialmente) – perché si ribaltasse l’impostazione che vedeva la salsa versata su un ammasso di pasta e formaggio già pronta.
Insomma, ci dice Montanari, per mangiare un piatto di spaghetti simile a quello che immaginiamo, dovremo aspettare il pieno Ottocento e riflettere sulle contaminazioni alla base di ciò che riteniamo identitario e fondativo della nostra specificità: la storia è fatta di scambi, le cui radici affondano immancabilmente in posti e culture lontane.