Negli ultimi anni il termine “specialty” è entrato prepotentemente nel linguaggio gastronomico. Che se ne conosca il significato esatto o meno, intuitivamente suggerisce un concetto di specialità, raffinatezza, qualità. E nel mondo del caffè sapete bene di che si parla, specialty tea suona più aleatorio.
Serve un ripassino? L’aggettivo viene ampiamente utilizzato nel mercato del caffè per distinguere, scrive James Hoffman, lo specialty dal caffè inteso come commodity, ovvero dal caffè che non “viene commercializzato in base alla qualità, è soltanto caffè: non importa molto dove sia stato coltivato, quando sia stato raccolto o come sia stato lavorato. Questa seconda tipologia però, ha definito il modo in cui gran parte del mondo considera il caffè: un prodotto generico in arrivo da qualche paese tropicale; un modo efficiente ancorché amaro, di introdurre caffeina nell’organismo per schiarirsi le idee”.
Anche questa però, è una definizione di comodo. Come abbiamo spiegato in passato infatti, il caffè specialty non è un generico caffè di qualità, di cui si conoscono provenienza e caratteristiche aromatiche, un caffè per il quale vengono utilizzati metodi di estrazione che ne esaltino il sapore più autentico. Questa è piuttosto un’accezione blanda di cosa sia uno specialty coffee, che è invece un sistema di valutazione della filiera del caffè che si prefigge lo scopo di stabilire cosa è eccezionale e cosa non lo è, in base a un protocollo internazionale e basato su parametri condivisi.
Questi concetti possono essere applicati senza distinzioni sostanziali al mondo del tè? Al livello puramente teorico parrebbe di sì. “Lo specialty tea è un tè in foglie di alta qualità proveniente da piccole piantagioni di tè. È il segmento dell’industria del tè che produce tè di alta qualità, di solito da singoli tea gardens” scrive Mary Ann Rollano facendo intuire che lo specialty tea è “semplicemente” un tè di alta qualità.
Abbiamo già provato a spiegare brevemente cosa rende un tè qualitativo o meno, ponendo in esame tutte le fasi di lavorazione e servizio che vanno dalla coltivazione della pianta del tè, alla tipologia di foglie che vengono prelevate, fino alla quantità di tè prodotto, ai metodi di lavorazione, all’impacchettamento (no bustine, sì tè in foglie) infine alla commercializzazione e al servizio. Tuttavia va sottolineato che, a differenza di quello che è accaduto nel mondo del caffè, il tè non ha ancora una definizione “standard” di specialty, sebbene il termine sia largamente in uso.
Per avere il polso della situazione, su Amazon è presente un’etichetta specifica “specialty tea” che include diverse tipologie di prodotti mentre nei bar di qualità di tutto il mondo è già possibile leggere nei menu “specialty tea” di fianco a “specialty coffee”. Per quanto riguarda l’Italia, questo termine è ancora poco usato, ma potrebbe essere più conosciuto nel futuro prossimo se, come è asupicabile, nel mondo del tè avverrà una rivoluzione simile a quella che è accaduta nel mondo del caffè, che porterà a rimettere in discussione le conoscenze diffuse sul tè soprattutto in paesi storicamente poco avvezzi al consumo consapevole di questa bevanda.
Intanto però sul tema della definizione dello specialty tea il dibattito è molto acceso. Non è difficile intuire il perché: la produzione del tè è amplissima nel mondo e investe parecchie regioni, da quelle millenarie (come la Cina) a zone più recenti (come l’Africa). Come si ripete spesso, il tè è la seconda bevanda più bevuta al mondo dopo l’acqua e la richiesta del mercato non può essere esaudita semplicemente dai tè di alta qualità. C’è poi il discorso del prezzo, del riconoscimento ufficiale (un’etichetta ad esempio?) che definisce una fetta di mercato superiore rispetto all’altra, tagliando fuori tutto il mondo del tè da scaffale molto presente nella grande distribuzione. E poi tutta un’altra serie di problematiche che concorrono a rendere ostico l’utilizzo di una definizione che escluda o comprenda una o più fette di mercato e che deve essere accettata in primis dalla comunità che il tè lo produce. Una comunità estremamente eterogenea fatta di produttori e associazioni che ha difficilmente trovato punti d’incontro, per ragioni storiche ma anche commerciali.
Qualcuno ci ha provato però. È il caso della International Specialty Tea Association che ha redatto una bozza di manifesto con l’obiettivo di “preservare la produzione tradizionale di tè di alta qualità, per aumentare lo standard delle informazioni sul prodotto che viaggiano lungo la catena di fornitura ai professionisti dell’industria del tè e ai consumatori, e per disambiguare il mercato dei consumatori per il tè “specialty”. E poi, ancora più importante: “Attualmente, il termine “tè specialty” nel marketing comunica ambiguità. Nell’industria del tè nordamericana ed europea, il termine implica la qualità solo in modo vago. In India, il termine può significare una categoria di tipi di tè, compresi i tè verdi, bianchi e oolong – quasi ogni tipo di tè tranne il tè nero di produzione comune. Il termine non è usato affatto nell’industria cinese del tè. Il termine vago permette al mercato del tè di mescolare il tè di vera qualità con una vasta gamma di offerte sospette, tutte sotto l’etichetta di “specialty”. Questa ambiguità è dannosa in quanto confonde i consumatori. Definire il termine è una soluzione necessaria”.
Per questa ragione l’ISTA sta lavorando a una definizione che possa essere accettata dal mercato, trasparente, significativa e che ponga grande attenzione sul preservare la lavorazione tradizionale e artigianale del tè. Nel processo che porterà alla definizione di uno standard sono inclusi: la tipologia, dimensione e posizione del giardino dove il tè viene prodotto, la velocità, accuratezza e tipologia di raccolta delle foglie, e poi concretamente quali foglie vengono raccolte e quando per la realizzazione delle diverse tipologie di tè, si passa poi alla lavorazione dove si cerca di proteggere i processi tradizionali di creazione del tè specifici di ciascun giardino, infine la formazione di tea-tester professionisti che assegnino un punteggio al tè dopo averlo provato secondo parametri numerici, che possano includere anche tipologie di tè diversissime tra di loro. Insomma un processo in via di definizione e in vari step che troverà maggiore chiarezza nei prossimi anni.
Anche la European Specialty Tea Association ha provato a fornire una definizione di tè specialty. È il 2021 quando un gruppo di esperti di tè si riunisce per condividere quali sono i parametri necessari per considerare un tè di alta qualità. Scrivono da ESTA: “Riconosciamo che sarà difficile, se non impossibile, ottenere una definizione che sia universalmente accettata da tutti nella comunità delle specialità di tè, quindi abbiamo descritto il nostro approccio piuttosto che dettare una definizione, nella speranza che la maggior parte delle persone sia d’accordo con la maggior parte del suo contenuto”.
Tra i parametri che vengono segnalati c’è la conoscenza della filiera del tè: il fornitore, l’azienda agricola, l’ubicazione, le date di produzione, il metodo di lavorazione. Altri parametri invece riguardano le caratteristiche della pianta e delle foglie. Ovvero questi cinque aspetti: la foglia secca (prima dell’infusione); l’aroma della foglia secca; il colore e la limpidezza del liquore; il sapore e la sensazione in bocca del liquore; l’aspetto e l’aroma della foglia bagnata. Si sottolinea anche la necessità di mettere al centro la sostenibilità del packaging e il rispetto dei lavoratori. Subito dopo l’uscita della definizione, diverse associazioni che si occupano di tè hanno accolto in modo ambiguo la novità, sottolineando che i criteri proposti da ESTA sono già ampiamente soddisfatti (anche per requisiti di legge) da tutti i produttori di tè, che siano piccoli o industriali.
Purtroppo questa è solo una piccola parte di un ampio dibattito cominciato diversi anni fa e destinato a durare ancora per molto. È chiaro come il termine “specialty” se usato nel mondo del tè per indicare una zona d’ombra dove non sussistono parametri o certificazioni, possa ingannare e blandire i consumatori, soprattutto nell’ampia fascia di mondo dove il tè arriva senza essere coltivato direttamente in pratiche bustine a prezzi irrisori. È plausibile che in contesti come la Cina, dove la produzione è storica, la comprensione di cosa sia un tè di qualità sia molto più interiorizzata e diffusa, rispetto all’Italia o agli Stati Uniti.
Attenzione: il fatto che non esista una definizione univoca o “certificazione” di specialty tea non significa che non esistano altri tipi di certificazioni per definire un tè di qualità. Ci sono ad esempio moltissime certificazioni che si soffermano sulla filiera e attestano se un tè è biologico, biodinamico, fair trade, kosher, gluten free, ogm free e tanto altro. Ci sono poi diverse università che formano tea-tester professionisti, corsi professionali tenuti da esperti e anche corsi più blandi che possono svolgersi in presenza o online per riconoscere tè di qualità o per eseguire correttamente l’infusione delle foglie del tè secondo le diverse tipologie. Anche qui l’offerta è molto ampia e non sempre rassicurante. Proprio per questo vale la pena osservare come si evolverà il dibattito in futuro.