È notizia di oggi il sequestro di 7 tonnellate di pesto Rana al porto di Genova da parte degli Ispettori di Frontiera per presunte irregolarità sulla produzione della salsa: la controversia sarebbe scaturita dalla dicitura riportata sui barattoli – destinati al mercato francese e spagnolo – “composto da basilico 100% genovese DOP“. Il pesto però arriva via mare dagli Stati Uniti ed è stato prodotto a Chicago, negli stabilimenti della Rana Meal Solutions.
Niente di nuovo sotto il sole, diranno i più accorti tra voi, ma la faccenda apre il vaso di Pandora anche agli occhi di chi conosce meno il mondo delle denominazioni d’origine: usare la denominazione DOP è possibile anche se poi il prodotto finale viene preparata fuori dalla zona di produzione? E ancora, perché un prodotto italiano DOP viene spedito in America per poi tornare, trasformato, in Italia (e in Europa)?
Cosa sono le DOP
I prodotti a denominazione (DOCG, DOP, IGP, STG) sono alimenti che nel loro processo di produzione devono seguire un disciplinare molto rigido, approvato dal Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste e dall’Unione Europea. Nel disciplinare, specialmente per i lavorati come formaggi, salumi o vino, vengono definite la zona di produzione della materia prima, la zona di lavorazione e confezionamento del prodotto, e le caratteristiche intrinseche che deve avere il prodotto per esser considerato accettabile dalla DOP.
Nel caso specifico del basilico utilizzato da Rana, il disciplinare della DOP prevede regole a proposito delle sementi della pianta, del periodo di semina e raccolta, di come deve essere utilizzato e confezionato il prodotto sia per la commercializzazione da fresco sia da trasformato per poter mantenere la Denominazione di Origine. Queste regole, unite ad una tradizione centenaria di produzione e utilizzo, fanno sì che ovviamente non tutte le piante di basilico prodotto in Liguria possano avere il logo DOP.
Quando è corretto utilizzare il termine DOP e perché?
Chiaramente, utilizzare il termine DOP sull’etichetta di un alimento che contiene veramente un prodotto a Denominazione d’Origine è più che corretto, anzi, è obbligatorio. Il problema sussiste quando questa dicitura viene utilizzata impropriamente, quindi nel caso di prodotti contraffatti o di cui è impossibile tracciare la filiera.
Un altro aspetto che va chiarito è che per molti, soprattutto i consumatori meno consapevoli, le sigle DOP, IGP, DOCG e STG – o PDO e PGI in inglese – non sono solo sinonimo di tracciabilità ma anche di qualità. E questo purtroppo non è sempre vero. Le sigle delle denominazioni, infatti, non costituiscono una garanzia di qualità del prodotto, ma chiariscono solamente una filiera di produzione controllata e sicura. E questo certamente può essere una motivazione in più per acquistare un vino, un salume, un formaggio o una verdura.
Quindi sì, sicuramente esistono prodotti non a Denominazione di maggiore qualità rispetto alle loro controparti DOP o IGP ma è stato dimostrato che spesso un consumatore scelga, a parità di qualità, un prodotto DOP perché può sembrargli migliore.
È quindi questo il motivo per cui potrebbe essere stata inserita sull’etichetta delle 7 tonnellate di pesto sequestrato la dicitura composto da basilico 100% genovese DOP o semplicemente il basilico utilizzato è davvero genovese DOP? E allora perché produrre all’estero qualcosa che sarebbe stato sicuramente più facile produrre in Italia o in Europa, quantomeno?
Perché produrre alimenti certificati come tipici italiani all’estero?
La controversia del caso di Rana, quindi, sta più che altro nel capire perché un prodotto italiano venga trasportato, anche con una fatica non indifferente probabilmente, negli USA e poi venga rispedito in Italia per finire sulle tavole europee e, tra le altre cose, se questo tipo commercio può essere sostenibile sia dal punto di vista economico che ambientale.
La questione certamente è spinosa: il pesto Genovese è un prodotto P.A.T. (Prodotto agroalimentare tradizionale) legato alla tradizione ligure però è anche vero che sfidiamo tutti voi ad andare a controllare l’etichetta del pesto che avete in frigo e vedere da dove proviene. Sicuramente dall’Italia, però magari da un’altra regione, e dentro non avrà come formaggio il Fiore Sardo, ma solo il Parmigiano Reggiano.
Ergersi quindi a difensori del made in Italy – in questo caso particolare – non ha molto senso. Fanno sorridere ad esempio le dichiarazioni del presidente di Assoutenti Furio Truzzi che sfida Rana a “Ricorrere alle casalinghe della Liguria per produrre il pesto che sarà poi destinato al mercato estero, in modo da garantire al 100% l’italianità del prodotto”, annunciando anche la presentazione di un esposto alla Procura di Genova per danni al Made in Italy.
Altra faccia della medaglia è invece il punto che vorremmo criticare: è possibile che per preparare un vasetto di pesto destinato all’Europa la produzione debba essere spostata negli USA? Probabilmente sì, perché per l’azienda il costo è minore e perché, negli stabilimenti Italiani, si prepareranno i prodotti destinati al mercato italiano. È però anche vero che far fare il viaggio in nave/aereo alle materie prime non è – e non sarà nel futuro – più sostenibile dal punto di vista sia economico sia ambientale. Qual è infatti l’impatto sull’inquinamento di questo piccolo barattoletto di pesto? Ridurlo è davvero possibile? Sicuramente sì, soprattutto valutando bene le etichette degli alimenti che compriamo: non vogliamo chiamarla autarchia o Sovranità alimentare – come sta già facendo qualcuno – ma è necessario riflettere sul perché queste cose accadono e come essere consumatori più consapevoli.
Di certo, controlleremo l’etichetta del nostro pesto o del nostro pomodoro in dispensa da adesso.