Sono andato a visitare alcune aziende di salsa di soia giapponese, per vedere come si produce, le differenze di sapore fra i vari tipi, naturale o industriale, incluse le varie alternative proposte, da quella più dolce fino alla tamari, senza glutine.
Partiamo da un presupposto: il mercato della salsa di soia, almeno per i piccoli e medi produttori giapponesi, sta incontrando non poche difficoltà. A parlarne sono innanzitutto i numeri: in Giappone si è passati da circa 2300 produttori nel 1988 a 1200 nel 2019, con una percentuale del 50% dell’intero mercato giapponese occupato soltanto da 5 grandi aziende, secondo i dati riportati dal rappresentante della Maruju-ooya di Yamagata, il più grande dei produttori che ho visitato.
Dal canto loro, i produttori artigianali trovano mercato esclusivamente nella loro area di produzione, invece, ben consapevoli di poter chiudere i battenti dall’oggi al domani.
Così è per Ajiyama, il piccolissimo laboratorio che ho visitato, sempre nella stessa zona di Yamagata: una cantina invasa da muffe, pentole e oggetti dalla funzione incognita lasciati in ogni angolo; ci tengo a precisarlo, ho indossato i sacchetti alle scarpe e la cuffietta in testa, per non contaminare il luogo e non cambiare l’ecosistema microbico che, giuro, si può respirare in quell’ambiente e che sicuramente ha un’influenza nella crescita dei giusti batteri e nel processo di fermentazione, alla base di prodotti sorprendentemente spaziali all’assaggio, nonostante le condizioni igienico-sanitarie discutibili.
Uno dei motivi del crollo di di produttori negli anni è, a detta degli esperti del luogo, la minore predisposizione alla cucina da parte dei giapponesi. Proprio così, perché la salsa di soia, nonostante la conosciamo più come un accessorio da tavola, per inzuppare ogni cibo tipico dell’estremo oriente che ci si pari dinnanzi, è in realtà un alimento molto versatile, nonché ingrediente alla base di molte preparazioni e ricette.
Nonostante tutto ciò si fa strada una nuova tendenza, una sorta di retro-innovazione che vi ricorderà, per certi versi, ciò che sta accadendo anche dalle nostre parti, in altri settori: si riprendono in mano le tecniche più vecchie e si produce una salsa di soia al naturale, combinando metodi antichi con le nuove tecnologie e gli studi sulla qualità. Specialmente gli artigiani più giovani lo fanno.
Si spolverano le apposite barrique di legno, conosciute col nome di Kioke, importantissime per la formazione di batteri e gli aromi nel prodotto finale. Questo ritorno a uno stile più “old-school” nasce anche per contrstare la produzione di massa e l’impiego di ingredienti sintetici nella ricetta della salsa di soia.
Cerchiamo, perciò, di capire come si produce la salsa di soia e quali sono le differenze fra le tipologie, soprattutto fra il processo standard, più antico, e quello che impiega agenti chimici, delle salse di soia che forse ci sono più familiari.
Gli ingredienti della salsa di soia
La salsa di soia (in giapponese “shoyu”) si divide a seconda dei molti metodi e stili di produzione, che variano in base alla zona storica di origine e, soprattutto, alla grandezza e al tipo dell’azienda. E’ composta da legumi della soia, frumento, acqua, sale e koji (Aspergillus oryzae), che è un fungo filamentoso necessario per la fermentazione, nonché uno dei principali responsabili del gusto umami, determinante per la qualità del prodotto.
Il processo tradizionale di produzione parte dalla preparazione di una base per la fermentazione, coi legumi della soia ancora crudi, lasciati ad ammorbidire in acqua, oppure cotti al vapore, mischiati ai cereali di frumento cotti e ridotti in una sorta di poltiglia; a questi ingredienti viene aggiunto il koji, tradizionalmente ottenuto dalla lavorazione del riso e per il quale esistono tecniche e ricette diverse. Dopo aver unito queste parti, si lascia a maturare e per qualche giorno, prima di aggiungere il sale, l’acqua ed altri agenti microbici.
A questo punto, prima dell’estrazione del liquido e degli ultimi passaggi prima dell’imbottigliamento, possono passare mesi, affinché il processo di fermentazione sia completato; una differenza con la produzione convenzionale è proprio il tempo impiegato: molte grandi aziende utilizzano un procedimento più veloce ed economico, che combina le alte temperature ad un processo chiamato idrolisi acida, da cui risulta un prodotto più sintetico e meno complesso a livello di aromi.
Inoltre, industrialmente, è molto comune l’aggiunta di additivi, che devono essere riportati in etichetta, secondo la legislatura giapponese, a differenza di quella di altri Paesi; generalmente, quando in etichetta si trovano “proteine di soia idrolizzate” o “proteine vegetali idrolizzate”, scorrendo la lista degli ingredienti (che abbiamo visto essere molto semplice, se fatta al naturale), significa che vengono utilizzati agenti chimici.
Quali sono i tipi di conoscere?
Esistono varie tipologie di salsa di soia, a seconda delle percentuali di soia e grano, dell’aggiunta di diversi ingredienti e, di conseguenza, del profilo del prodotto e dell’utlizzo che se ne fa.
Per quanto riguarda la salsa di soia giapponese più comune, la koikuchi, vengono utilizzate simili o uguali quantità di soia e frumento; questa, se viene fatta fermentare due volte, prende il nome di saishikomi e presenta una colorazione più scura, una consistenza più densa, un gusto molto più intenso, ma meno salato (insomma, le batte tutte).
Diversa è la usukuchi, che si presenta con colore più chiaro poiché viene utilizzato l’amazake, un liquido dolce ottenuto dal riso, durante la produzione del koji.
Molto conosciuta è la salsa tamari, un prodotto dove si impiega meno del 10% di grano (o addirittura gluten free): il profilo aromatico, manco a dirlo, è meno complesso, e il sapore più leggero. Esistono poi molte varianti della salsa di soia, da quelle con aggiunte di melassa o brodo, a ridotto contenuto di sale ed anche, nata più recentemente, la salsa di soia certificata Halal, che incontra la domanda nei paesi musulmani.
Come si usa la salsa di soia?
Ovviamente, nessuno vieta di usarla come condimento per il sushi o altri piatti, ad esempio il ramen e le zuppe: si tratta pur sempre di un insaporitore per eccellenza. Tuttavia, esistono molte ricette, sia di altre salse, che di piatti, per utilizzare la salsa di soia in maniera meno banale.
Ad esempio, la salsa di soia può essere utilizzata per la marinatura della carne, unita ai sapori agrodolci, oppure per cucinare le verdure saltate in padella. Una ricetta sempicissima, buonissima e salva-tempo è quella del riso saltato con uovo e salsa di soia; oppure, potete buttarvi sulla preparazione della salsa ponzu, perfetta per accompagnare lo shabu shabu, un modo particolare di mangiare il wagyu o il maiale, cuocendo la fettina sul momento.
Attenzione, però, agli utilizzi dei diversi tipi di salsa di soia: in linea generale, sappiate che la salsa di soia classica e traslucida, da condimento, è più salata, rispetto alla tamari e a quella più scura e densa, che si possono utilizzare più facilmente in cucina, senza coprire troppo i sapori.