Il sakè italiano esiste, e questa è già una notizia di suo, dacché è il primo, nato in Piemonte, fatto con il riso di Vercelli e in particolare con il “Penelope”, varietà autoctona del vercellese, dal gusto intenso, l’aroma fruttato e il colore che se la batte con il “Venere”. Non a caso si chiama Nero. L’ho provato, ma prima di dirvi com’è sento la necessità di fare qualche piccola precisazione di matrice culturale.
Mentre in Italia ci esaltiamo con le fermentazioni esotiche e guardiamo all’acido e all’umami combinati con la bocca spalancata, in Giappone chiamano sakè qualsiasi cosa, perché sakè significa bevanda alcolica. O per meglio dire, il termine sakè, che detto dalla bocca di un Giovanni suona altezzoso, laggiù è un tantino generico.
Vi siete ripresi? Perché posso essere più arrogante di così. Se guardate al Kanji – l’ideogramma – del Sakè, noterete che è la rappresentazione stilizzata di una boccetta, senza alcun tipo di riferimento al riso. In Giappone il sakè si chiama nihonshu, laddove -shu è la desinenza delle bevande alcoliche (in generale) e nihon significa nippon, cioè “del Giappone”. Quindi, vi confermo, bevanda alcolica giapponese.
Ciò detto, se parliamo di Sakè di riso, esiste il junmai, ovvero il sakè di riso “semplice”, realizzato solo con acqua, riso e koji (il riso cotto a vapore, base per lo sviluppo della muffa nobile Aspergillus Oryzae), e poi esiste l’honjozo, che prevede l’aggiunta di alcol puro. Proprio a questa seconda tipologia di sakè “fortificato” è ispirato Nero, che però è stato interamente italianizzato.
Come nasce il primo sakè italiano
La materia prima del primo sakè italiano, come dicevamo poc’anzi, è riso nero “Penelope”, integrale – prodotto dall’azienda Gli Aironi – , e al posto del koji vengono utilizzati lieviti di birra selezionati, in omaggio ai birrifici piemontesi di inizio ‘900. Dopo la fortificazione, che fa passare il “sakè” ottenuto dai 12 ai 17 gradi, il processo di produzione di Nero prende una strada tutta sua, ispirata al Vermouth torinese. Quindi viene aromatizzato, con un’infusione di botaniche caratterizzanti, artemisia e achillea in primis.
Dietro tutta questa pensata, non a caso, ci sono Davide Pinto, del cocktail bar torinese Affini – tra le altre cose – ed EvHo, scuola di barman di Torino, oltre all’azienda di riso sopracitata. Si punta, chiaramente, alla mixology, come suggeriscono il packaging, il processo di produzione, fortificato perdipiù, il prezzo della bottiglia – da mezzo litro – al consumatore (“meno di 30 euro”, assicurano), nonché la presentazione del prodotto stesso, che alla stampa, me compresa, è stato proposto sotto forma di cocktails originalissimi.
Ne cito uno, per ispirarvi: “Mango Matter”, con Sake Nero, Rhum Agricole Al Curry, zucchero, puree di mango, lime.
L’assaggio: com’è Nero, il sakè italiano
Veniamo al dunque: com’è Nero? Buono, perfetto per la miscelazione – finché ci pensano i barman, sicuramente – altamente caratterizzato. Mettete da parte la vostra idea di saké di riso giapponese, però, se lo assaggiate in purezza. Se abbandonate ogni pensiero rivolto al saké e alle vostre esperienze precedenti legate ad esso, potrebbe venirvi in mente, al primo impatto, il Vemouth, complice (l’equilibrato) impatto delle botaniche. Poi entrano in gioco l’amaro, un velato umami, una lievissima acidità e l’astringenza finale, accompagnata da una nota, molto piacevole, di liquirizia. Un “saké” italianizzato insomma, anche nel gusto.