Non sono vegetariana, né vegana. Non sposo con la dovuta passione la causa animalista, anche se sono convinta che tutti dovremmo avere un consumo più consapevole di proteine animali. Ma, nonostante la mia poca propensione verso il mondo “meat free”, muoio dalla voglia di provare il tonno vegetale, appena lanciato sul mercato svizzero da Nestlè.
Forza, linciatemi pure, so perfettamente che lo farete.
Ma se avete voglia di ascoltare le mie argomentazioni, eccole qua. Parliamo del tonno in scatola: credo fermamente che sia tra i (tanti) prodotti che qualsiasi consumatore attento dovrebbe eliminare dal suo carrello. Io l’ho fatto tempo fa, anche se ogni tanto – lo ammetto – cedo alla tentazione, facendo attenzione ad acquistare i prodotti migliori che il mercato offre.
Quando ho spiegato a mio marito che avremmo dovuto smettere di comprare il tonno in scatola, l’ho fatto con un’immagine che credo sia semplicissima da assimilare. Pensa allo scaffale del tonno in scatola nel nostro supermercato di riferimento, gli ho detto. Moltiplica quello scaffale per tutti i supermercati della città, poi per quelli del mondo. Ed ecco chiaro il motivo per cui non dovremmo mangiare più tonno in scatola. Semplicemente, non abbiamo così tanto tonno disponibile nei nostri mari. Non sicuramente per sempre.
Questo semplice ragionamento apre a lunghissimi dibattiti: sullo sfruttamento dei mari, sulla sostenibilità della pesca, e anche su quello che le multinazionali (quelle come Nestlé che lancia il “Sensational Vuna“, beninteso) ci propinano in una scatoletta che – fondamentalmente – sa di olio di pessima qualità.
Eppure, la rinuncia al tonno in scatola mi è pesata più di altre. Ognuno al suo comfort – junk food di cui vergognarsi: per alcuni sono i Sofficini, per altri le merendine, per me era il tonno sott’olio. E poi, passando gran parte delle mie cene al ristorante, la mia dieta casalinga prevede spesso l’insalata. L’insalatona, come la chiamiamo tutti. E l’ingrediente principe di un’insalatona, ragazzi, è il tonno in scatola. Che comunque è un ingrediente jolly piuttosto facile e pure versatile, quando hai il frigo semi vuoto, come insegnano tutti gli studenti fuori sede che hanno da sempre fatto della pasta al tonno la ricetta principe della loro alimentazione.
Dunque, tutto sommato, rinunciare al tonno non è stato semplice. Ed è per questo che non vedo l’ora di provare l’alternativa vegetale di Nestlè. Certo, non faccio i salti di gioia all’idea che a produrla sia una delle multinazionali più multinazionali del food. Ed è ovvio che non godo pensando al fatto che mi venga propinato il surrogato di qualcosa che qualcosa non è spacciandomelo per quel qualcosa. Però, se mi manca il tonno in scatola (e un po’ mi manca), questa resta un’alternativa possibile – oltre a quella di consumarne meno, e sceglierlo in maniera super selezionata, che è quello che faccio attualmente.
È lo stesso discorso che fa chi consuma la “carne non carne”, direte voi. Prodotto per il quale – se non per mera curiosità professionale – non nutro invece alcun interesse. No, rispondo io, perché la questione – almeno dal mio punto di vista – è fondamentalmente diversa, per tutta una serie di motivi.
Il primo: lo sfruttamento del mare (e del tonno in particolare) è un discorso che ha poco a che fare con quello dell’allevamento bovino, ovino o suino. Signore e signori, la dura verità è che il pesce sta finendo. Negli ultimi 60 anni le catture di tonno a livello globale sono aumentate del 1000% (fonte: Università della British Columbia), e il tonno inizia a considerarsi a tutti gli effetti una varietà a rischio estinzione.
La situazione non è, fortunatamente, quella di una manciata di anni fa, quando davvero il tonno stava scomparendo dai nostri mari. Con la consapevolezza del problema e la ripartizione delle quote di pesca, negli ultimi anni, qualcosa s’è fatto per la popolazione ittica. Ma contemporaneamente è anche cresciuta la richiesta di mercato, con il boom di sushi, sashimi e compagnia bella (in cui mettiamo pure il tonno in scatola).
Il tonno raggiunge la maturità sessuale tardi e ha una prole scarsa: il ciclo riproduttivo di questa specie, semplicemente, non tiene il passo con il commercio mondiale. E allevarlo, nel senso “tradizionale” del termine, non si può: il tonno non viene fatto crescere in cattività, come avviene per altre specie ittiche, ma soltanto ingrassato per un periodo in grandi gabbie galleggianti.
Gabbie che, per quanto riguarda il Mediterraneo, si trovano per lo più al largo delle coste maltesi, da dove poi parte per essere venduto in Giappone. Lì, dove il sushi è una cosa seria, mica all you can eat, viene commerciato almeno l’80 % (c’è chi parla del 90%) del famoso tonno rosso pescato nel Mediterraneo: i Giapponesi lo pagano circa dieci volte il prezzo d’acquisto.
Dunque pensateci, quando vi illudete di mangiare un prodotto che fa parte della nostra tradizione di pescatori. Qui da noi, è bene che lo sappiate, arriva per lo più il tonno a pinna gialla pescato nell’oceano Indiano o Pacifico, in un incomprensibile scambio in cui ci perdiamo, sia in termini di qualità che economici.
Secondo: è più facile – mi sembra – consumare carne in modo consapevole e corretto, comprandola da macellai selezionati, che a loro volta comprano da allevatori selezionati, innescando un circolo virtuoso che boicotti automaticamente gli allevamenti intensivi. Potremmo riassumere il tutto in una frase, di cui ho fatto il mio personalissimo mantra, convinta che l’abbiate fatto anche voi: “meno carne, ma più buona”.
Lo stesso discorso lo si può fare anche per il pesce? Più o meno, in realtà, se il tonno della qualità più pregiata resta nelle nostre pescherie solo per un 20% scarso del totale. E certamente diventa un po’ più difficile fare questo ragionaento quando si parla di tonno sott’olio, un alimento di per sé da grande distribuzione, che – diciamo – non punta generalmente al massimo della qualità. Ovviamente anche in questo caso le alternative esistono, e sono quelle a cui mi sto rivolgendo in questi ultimi anni, non senza che il mio portafogli ne risenta.
Per cui, che mi linciate o no, io non vedo l’ora di assaggiare il “tonno non tonno”. Non dico che mi riempirò la dispensa, né che diventerà il mio alimento preferito: dico che alla fine, se il mondo delle multinazionali va verso la direzione del plant based, è forse perché sa che ha consumatori a cui rivolgersi. E forse non sempre sono matti invasati.