Perché la peste suina non ci interessa

Sulla peste suina è in atto un processo di negazione collettiva, che ha ragioni logiche quanto crudeli.

Perché la peste suina non ci interessa
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Perché al pubblico italiano interessa così poco il tema della peste suina? L’ho chiesto qualche giorno fa a Lorenzo Biagiarelli, da tempo sostenitore della necessità di una dieta senza carne, o quantomeno con molta, molta meno materia prima di origine animale rispetto alle quantità a cui siamo generalmente abituati.

Gliel’ho chiesto, caso vuole, giusto qualche giorno prima della messa in onda della nuova puntata di Report, dedicata proprio al fallimentare contenimento del virus della peste suina, che dilaga negli allevamenti italiani e che causa l’uccisione di migliaia di bestie, anche in maniera preventiva, spesso tra atroci sofferenze. A realizzare il servizio è stata Giulia Innocenzi, che ormai sul tema è tra le più attive giornaliste in Italia.

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Non solo metodi di soppressione discutibili, ma anche una serie di scelte che forse, se non hanno favorito la circolazione del virus, quantomeno non l’hanno rallentata.

I numeri della peste suina

peste suina allevamenti

Il risultato è che dall’inizio dell’epidemia nel mese di gennaio 2022 sono stati abbattuti quasi 120mila maiali, con una crescita esponenziale che ha visto uccidere quasi 90mila animali solo tra agosto e settembre (data a cui fa riferimento il documento presentato a Bruxelles dal governo italiano da cui vengono prese queste cifre). Dunque, la situazione inizia a essere preoccupante, ed è incredibile che invece in molti non se ne curino.

Lo è non solo sul piano della salute, ma anche su quello economico, come evidenzia ad esempio Assosuini, l’associazione degli allevatori suinicoli italiani. “L’epidemia infatti sta mettendo a rischio la sopravvivenza dell’intero settore suinicolo, fondamentale per l’agroalimentare italiano. Con oltre 10 milioni di suini allevati, 100mila posti di lavoro e un valore della produzione di circa 20 miliardi di euro, l’epidemia minaccia non solo la produzione di carne suina, ma anche la filiera dei salumi DOP, un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale, con perdite economiche stimate fino a 30milioni al mese”, avverte.

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Eppure, nonostante gli allarmi, la peste suina sembra non riguardare i pensieri dei consumatori. La stessa cosa, in effetti, è accaduta e accade con l’influenza aviaria, che continua a non preoccuparci quanto dovrebbe, nonostante la comunità scientifica ne evidenzi chiaramente i margini di rischio, anche per l’uomo.

L’argomento, anche giornalisticamente, sembra non essere avvincente per i lettori. E allora c’è da chiedersi perché questo succede.

Un processo di negazione collettiva

Il problema è che non c’è pericolo diretto per l’uomo“: ha risposto all’incirca così Lorenzo Biagiarelli, durante una sua diretta video, alla mia domanda sulla poca preoccupazione collettiva che traspare per la peste suina. Vero, sicuramente, ed è un argomento da tenere presente. La peste suina, così come l’influenza aviaria, non ha (ancora) toccato direttamente l’uomo. O meglio, nel secondo caso ci sono diversi casi di aviaria riscontrati anche nell’essere umano, ma sempre per contatto con animali infetti. Dunque questa questione è sicuramente parte della mancata attenzione al tema. Eppure, non può essere semplicemente questa la motivazione. Quel che sembra infatti è che – come spesso avviene per le cose più grandi di noi, o che richiedono uno sforzo psicologico importante – la tendenza sia quella della negazione.

Impossibile pensare di smettere di mangiare (o anche solo mettere in discussione) il prosciutto cotto, cuore pulsante di tutti i frigoriferi italiani. Meglio raccontarsi che il problema non è reale, e che il rischio non esiste. Cambiare le proprie abitudini alimentari, peraltro in maniera anche piuttosto radicale, pure quando non si scelga di eliminare del tutto la carne dalla propria dieta, è un passaggio tutt’altro che semplice. Un passaggio che richiede molto più tempo, molta più fatica mentale, molte più energie di quanto non pensiamo. E allora, è qui che forse uno psicologo troverebbe nella negazione del problema un’arma di difesa del proprio equilibrio mentale: se il problema è troppo grande, meglio fingere che non esista.

Questo, evidentemente, non gioca a favore di nessuno. Di noi consumatori, dell’ambiente, dei produttori e degli allevatori, e degli animali.

Forse, a questo punto, vale la pena di fare una grande riflessione collettiva, e di affrontare o far affrontare il problema a piccole dosi. Perché la questione esiste, e non preoccuparsene non la farà sparire all’improvviso.