A Febbraio 2022 l’Istat rivela che il poke take away entra a far parte del paniere per l’inflazione 2022 insieme ad altri prodotti consumati dagli italiani, come i test rapidi per il Covid-19 e la friggitrice ad aria. Più nel dettaglio, ogni anno l’Istat rivede l’elenco dei prodotti che compongono il paniere di riferimento per i prezzi al consumo aggiornando contestualmente le tecniche d’indagine e i pesi con i quali i diversi prodotti contribuiscono alla misura dell’inflazione. E che indirettamente rappresentano abitudini di consumo nuove o consolidate, rafforzate in modo specifico da fattori contestuali e storici, come la pandemia.
Come sottolinea l’Istat, “Tra i prodotti rappresentativi dell’evoluzione nelle abitudini di spesa delle famiglie e delle novità normative, entrano nel paniere 2022: sedia da PC, friggitrice ad aria, saturimetro (o pulsossimetro), psicoterapia individuale, test sierologico, molecolare e rapido per Covid-19, poke take away e streaming di contenuti musicali”.
Se per molti il poke non era altro che l’ennesimo tormentone gastronomico, destinato a sparire nel giro di un paio d’anni, come avvenne per i negozi specializzati in patatine fritte, i numeri suggeriscono che l’hype da poke non prevede di arrestarsi. Anzi, che il consumo di questo prodotto si sia stabilizzato tra le abitudini alimentari degli italiani tanto quanto la pizza e la pasta.
Le ragioni di questo successo, viste senza residui di snobismo da cui non è esente neppure chi scrive, meritano di essere analizzate per comprendere meglio cosa è accaduto quando la tradizione gastronomica italiana, solitamente restia ad accogliere influssi esterni (Giulia Pompili notò su Il Foglio che rispetto all’Italia “uno dei paesi “test” per le multinazionali è il Giappone, dove le novità sono accolte sempre con grande entusiasmo – il Kit Kat, la barretta inglese al cioccolato prodotta dalla Nestlé, da decenni per il mercato italiano è sempre la stessa, mentre negli altri paesi se ne fanno di infinite varianti“) ha abbracciato una ricetta “estranea”, per quanto avvolta da uno storytelling pseudo-esotico, tanto da farla divenire un prodotto di uso comune.
Come conferma un’analisi di mercato di Growth Capital, il successo del poke in Italia è stato disarmante. Nel nostro paese il prodotto è arrivato ufficialmente nell’ottobre del 2017 quando I love Pokè ha aperto il suo primo store a Milano mentre a Roma il primo ad aprire è stato il brand Ami Pokè nel 2018, che è anche il primo concept di vero e proprio Hawaiian Bar in Italia. Nel 2020 il poke è divenuto l’ottavo cibo più ordinato a domicilio, crescendo di oltre il 133% rispetto al 2019. Nel frattempo il mercato delle pokerie in Italia è passato da un giro d’affari di €86M nel 2020 a un valore di €98M nel 2021 e si prevede che possa raggiungere i €143M nel 2024.
Un successo travolgente che vale certamente una spiegazione a cui premettere che la moda del poke non ha investito solamente l’Italia ma anche altri paesi, tra cui gli Stati Uniti dove il mercato delle pokerie ha raggiunto nel 2020 un giro d’affari di $1.74B. E parte dunque da effetti e principi “globali”.
Lo storytelling tropicale
Nessun prodotto si vende da solo negli anni ’20 del 2000 ma ha bisogno di una storia. In questo caso condita di tavole da surf, colori inclusive, onde altissime, spiagge bianche e tratti “esotici”. Fin qui il poke non fa altro che replicare i modelli di appetibilità di prodotti che venivano dall’altra parte del mondo e assumevano, in un’ottica squisitamente coloniale, tratti esotici, esclusivi e “altri”. Come il tè, il cioccolato e, in tempi molto più recenti, l’avocado.
Con la differenza che il poke è più una preparazione che un ingrediente, quindi si adatta più facilmente a qualsiasi contesto gastronomico, purché il mare non sia a più di 150 kilometri, con risvolti di appropriazione culturale con cui dovremmo fare i conti. Qui osserviamo solamente che l’associazione con un mondo lontano, poco conosciuto o misconosciuto, favoloso e naturalistico, abbia costituito il background di un product placement riuscitissimo. Come se mangiare poke a Lambrate equivalesse a un biglietto di sola andata per Waikiki Beach. Cosa che, magari fosse.
Il posizionamento salutista
Ancora una volta non parliamo di bontà, gusto, umami. Anzi, non ne parleremo mai. Perché anche il posizionamento ha a che fare con fattori estrinseci al prodotto in sé. È indubbio che il poke abbia avuto il successo che ha avuto perché è stato in grado di rispondere a una richiesta di mercato insoluta. Quella di cibo salutare, leggero, light, digeribile, a basso contenuto calorico da fruire in modo accessibile. Non a caso non è il poke in toto ad essere menzionato dall’Istat, ma il poke take away, quello scelto come pasto veloce e disimpegnato per il break in ufficio o in qualsiasi altro luogo. Una scelta condizionata dalla percezione del cliente, che vede negli accostamenti di pesce crudo, verdure e salse, un pasto leggero.
Sicuramente più leggero della pasta, della pizza o dell’hamburger, per cui preferibile da mangiare a pranzo per rimanere operativi durante la giornata. Ma il poke ha effettivamente caratteristiche più salubri rispetto al cibo nostrano? Secondo alcuni no.
La facilità di preparazione
Questo aspetto ha impattato non tanto sulle abitudini di consumo, quanto su quelle di replicabilità. Se pensiamo a un prodotto come la pizza, a meno che non partiamo da una materia confezionata, siamo certi di essere di fronte a una materia viva, che cambia di volta in volta, difficile da gestire. Ma il poke è stato addomesticato velocemente per divenire una ricetta facilissima da eseguire, assemblata sul momento con ingredienti già pronti, realizzabile anche da personale formato ma non specializzato. Questo spiega perché non conosciamo i nomi dei cuochi che preparano i nostri poke, ma conosciamo molte catene che hanno reso il piatto celebre sul territorio italiano.
La resistenza al delivery
Se facciamo il confronto con la pizza, con la pasta o con altri cibi italiani della nostra storia alimentare, il poke li batte quasi tutti per efficienza e facilità nel trasporto. Non si fredda perché è già freddo, non perde aromi o fragranza, la sua resa sul delivery è alta, anzi altissima. La pizza sarà pure scritta nel cuore di chi se la prepara in casa o la consuma nella pizzeria favorita, ma il poke è quella cosa che va a colpo sicuro per chi ha poco tempo e il giusto numero di pretese.
Personalizzazione e versatilità
Uno dei trend più presenti nel mercato del cibo è proprio quello legato alla personalizzazione. La possibilità di scegliere condimenti, quantità, selezionare tra diverse fasce di prezzo, viene sentita come un vantaggio competitivo che aiuta a modellare l’esperienza sulla base delle proprie esigenze. Il cliente entra nel processo per definire il prodotto finale che poi acquisterà. Per l’interpretazione che del poke è stata data nel mondo, questa caratteristica è perfettamente soddisfatta. Oltre a formule già predisposte, molte catene di poke permettono di scegliere sulla base di elementi modulabili: le proteine, la base di riso, la frutta, le verdure, le salse e i topping (la frutta secca e semi). A questa proposta si affianca comunque una scelta alla carta solitamente con proposte già modulate per accontentare un pubblico sempre più trasversale.
La socialità
Sembra una banalità, ma è proprio questo punto a chiudere il cerchio della tempesta perfetta. La possibilità di trasformare il poke in un perfetto post da Instagram ha notevolmente influito sulla crescita del fenomeno. Non a caso gli hashtag che definiscono il trend sono moltissimi, da #poke che conta (oggi, Febbraio 2021) più di 2 milioni di presenze su Instagram a #instapoke, #pokebowl e #poké. Le pagine social dei brand italiani sono molto popolate: Poke House conta su una community di oltre 45k follower, I love poké 35K, mentre Ami Poké 27k.