Le situazioni di crisi, come quella in corso in questi giorni, sanno saturare di contrasti le manie feticiste e le idiosincrasie dei popoli; evidenziandone l’assurdo. Accade che le penne lisce risparmiate a pacchi sugli scaffali razziati per il panico da Coronavirus ci facciano riflettere sulla natura dell’italianità, e sul modo in cui questa si riveli sotto forma di innata avversione nei confronti del peggior formato di pasta esistente.
Come insegna il commediografo, è dalla tensione tra la pressione drammatica e la scomposta reazione nervosa che scaturisce lo sbuffo d’ilarità: se ne ha che a quanto stia succedendo in questi giorni con il COVID19, meglio conosciuto come hashtag-Coronavirus, la mente collettiva abbia reagito con azioni preoccupate, frenetiche, e proprio per questo spesso venate di screziature irrazionali, che affondano radici nei modus operandi delle preferenze e delle abitudini quotidiane, ed aprono il campo alla più accesa ironia e anche a una serie di memotti normaloni.
Un esempio chiaro su tutti: perché diamine gli italiani, alle prime avvisaglie di contagio, hanno preso nelle zone di focolaio a razziare i supermercati che manco Manzoni ne l’assalto ai forni; e hanno svuotato COMPLETAMENTE gli scaffali della pasta secca, lasciando lì, a mo’ di trista bandiera, l’intera fornitura di penne lisce?
Boh perché è risaputo: le penne lisce fanno schifo. Ma tanto schifo che non sono nemmeno degne di illuminare l’ultima cena, come risorsa disperata alla fine dell’Apocalisse, quando il grano duro si è ormai estinto da anni insieme al 90% della biosfera e siamo a corto di scoiattoli radioattivi da rosicchiare.
Siamo italiani, italiani veri. Se dobbiamo morire, moriremo senza quella scomoda e puntuta losanga tubolare che non riesce a trovare posto, tutta obliqua, nel cavo orale. Death before penne lisce! Perché le penne lisce, è risaputo, fanno schifo.
“E a mio figlio non gli piacciono”.
Che le penne facciano schifo è una verità che ci insegnano le mense di scuola, quelle in cui Suor Provvidenza scodellava nei piatti, dall’alto dei suoi baffi ispidi neri, cucchiaiate di canne pizzute e pallide, moscette, che si erano imbibite di sugo fino a tingersi di un rosaceo bagnato e malsano.
Ci insegnano il male delle penne lisce gli infiniti apericena di prima del virus, con le vasche in ceramica ricolme di insalate di pasta tutte feta, rucoletta e mais in scatola, che gemono fino a conclusione dell’happy hour supplicando d’esser finite (“…ucciiidimiiii!”); mentre già il vassoio della pizza ha terminato il quarto e ultimo giro di giostra (avete presente la gente che si accalca a buffet attorno al vassoio della pizza calda? Altro che virus – quelli sì, che sono zombie. E voraci).
Le penne lisce fanno schifo perché si lasciano scivolare addosso tutti i sughi, come una zitella impenitente le attenzioni dei corteggiatori, come Scrooge la miseria aguzzina dei sottoposti (ma solo finché non vede i mostri). Quello che non rifiutano, le penne lo assorbono in una trama spugnosa e annichilente; che sopisce tutti i gusti e li fa propri sotto l’insegna di un nulla gommoso e storto.
E quindi è giusto, le penne lisce fanno schifo, non mangiamo le penne lisce! Né le farfalle, dice qualcuno, sfatte alle ali e perennemente crude in centro. I fusilli sì, ma per carità, non col pesto! Certuni odiano perfino lo spaghetto.
E fa ridere? Sì, fa ridere perché ci prepariamo al peggio, la situazione è tesa, ma a quanto pare neanche la tensione e il peggio, per gli italiani, sono peggio di un formato di pasta mal messo!
Fa ridere perché la levitas, lei, ci salverà: trovare modo di ridere, anche nei momenti bui, è un meccanismo di reazione alla negatività delle circostanze che permette di trovare un lato luminoso, un appiglio, un silver lining che cura l’umore e l’attitudine; e aiuta a rimettere in prospettiva ordinata le cose importanti, le psicosi, le criticità.
In coda voglio dire una cosa: le penne lisce fanno schifo. Ma mi vengono in mente due ricette della memoria di casa, almeno, che le richiedono e non potrebbero avere partner migliore. Provatele e fateci sapere.
Pasta a’ Milanisa
Versione di pasta con le sarde dell’Entroterra siciliano, quell’isola nell’isola lontana dal mare, isolata da chilometri di terra brulla e arsa, ove il pesce non arrivava se non in scatola, la campagna canta di selvatica fede, e il pomodoro è religione.
Ingredienti:
- Penne lisce
- Tonno in scatola
- Finocchietto selvatico fresco
- Concentrato di pomodoro
- Cipolla o, meglio, cipollotto
- Spicchio d’aglio
- Alici sott’olio
- Pangrattato
- Olio extravergine
- Una noce di burro
Procedimento:
Soffriggere metà dei cipollotti in una piccola casseruola, in abbondante olio extravergine d’oliva. Aggiungere il concentrato e poca acqua, portando a bollore. Lasciar cuocere per circa venti minuti a fiamma bassa avendo cura di lasciare il sugo abbastanza liquido, salare, spegnere il fuoco e aggiungere in infusione il tonno sott’olio sgocciolato.
Lessare in abbondante acqua salata il finocchietto, una volta pronto estrarre dalla pentola strizzando bene dall’acqua, tagliando a pezzetti e riservando l’acqua di cottura.
Soffriggere in una padella, in olio EVO, lo spicchio d’aglio e la restante metà dei cipollotti, sciogliere nel soffritto qualche alice, indi tostare il pangrattato (preferibilmente fresco e a grana grossa).
Cuocere al dente le penne lisce (rigorosamente! Non si ammette altro formato. Vabbè gli spaghetti sì, ma stiamo parlando di penne e quindi) nell’acqua di cottura dei finocchi, una volta scolate disporre in casseruola una noce di burro, un po’ di sugo, uno strato di pasta, uno di finocchi, ancora del sugo e continuare così fino ad esaurimento degli ingredienti.
Lasciare insaporire per qualche minuto, finché asciutto, e mescolare, coronando tutto con un’abbondante spolverata di mollica di pane tostata. Servire e aggiungere ulteriore pangrattato a condimento.
Pasta ‘Ncaciata (o ‘Ncasciata)
Nome dall’etimologia oscura impiegato per primi piatti anche molto diversi tra loro, si pensa derivi dalla presenza nella ricetta di cacio, o alternativamente dall’impiego nella preparazione di una cascia, teglia nella quale viene riposta se la cottura viene completata al forno.
Questa versione è quella preparata nell’entroterra siciliano, ricca di pecorino ma finita in casseruola, e non al forno.
Ingredienti:
- Penne lisce
- Mezzo cavolfiore violetto
- Cipolla
- 350gr macinato di maiale
- Concentrato di pomodoro
- 150gr. pecorino siciliano grattugiato
- Olio extravergine
- Noce di burro
- Sale
- Pepe
Procedimento:
Ridurre il cavolfiore a cimette, eliminare il gambo, disporre le cimette in una boule capiente e lavare sotto acqua corrente lasciando i fiorellini in ammollo.
In una casseruola, soffriggere in olio EVO la cipolla a julienne, una volta dorata, aggiungere le cimette di cavolfiore estratte direttamente dalla boule con l’acqua, senza scolarle. Lasciare rosolare per qualche minuto, poi aggiungere il concentrato di pomodoro e, alla bisogna, ulteriore acqua. Portare a bollore e lasciare cuocere a fiamma bassa per 15′, aggiustando di sale e avendo cura di lasciare il sugo lento.
A parte, disponete in un piatto il tritato di maiale e condite generosamente con sale e pepe.
Cuocete in abbondante acqua salata bollente le penne lisce, scolatele poco oltre metà cottura.
In una casseruola di alluminio capiente, fate sciogliere appena una noce di burro e disponete sul fondo il trito di maiale condito.
Aggiungete sopra uno strato di penne, un po’ di sugo coi cavolfiori, ripetete la disposizione in strati fino a esaurimento.
Fate asciugare per qualche minuto avendo cura che la carne rosoli bene, poi cominciate a girare sgranando il tritato in blocchi non troppo piccoli con il cucchiaio di legno.
Quando la carne e la pasta sono cotte, ed il sugo si è ritirato, spegnete il fuoco e aggiungete abbondantissimo pecorino grattugiato; mescolando.
Servite con altro pecorino, a crudo, direttamente sul piatto.