Prendiamo il toro per le corna, affrontando uno dei grandi mostri di questo 2023. E no, non mi riferisco a guerre, precarietà, strascichi pandemici, diritti negati. Sto parlando del raccapricciante Parmigiano del Wisconsin, Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato (in Italia almeno).
Falso come una banconota da 6 euro. E siamo tutti d’accordo. Eppure fra le memorabili nefande notizie di quest’anno c’è anche lei: l’intervista di Alberto Grandi al Financial Times. In cui il professore di storia dell’alimentazione e preside della facoltà di Economia e Management all’Università di Parma sostiene, a grandi linee, che “il vero Parmigiano si fa nel Wisconsin”. Di fronte a un titolo così ci vogliono circa 20 secondi a far scatenare una polemica sensazionalista da bava alla bocca.
Il punto però è che, come non basta il titolo alla comprensione del testo (dicasi “analfabetismo funzionale”), così non si può avere opinione su un argomento senza sapere di cosa si parla. In altre parole, il cibo bisogna assaggiarlo invece di scagliarcisi contro a priori.
E dunque torniamo a noi, anzi a me che ho deciso di affrontare direttamente il formaggio in questione con una bella prova d’assaggio. Mi sono procurata una fetta di Parmigiano del Wisconsin al Whole Foods di quartiere a New York City e l’ho analizzata per voi. Con tanto di comparazione con Parmigiano Reggiano Dop (acquistata nello stesso punto vendita) e scheda di degustazione alla mano.
Partendo dalla controversia e dal prodotto in sé (perché credo che contestualizzare sia il minimo), vi guiderò nell’analisi sensoriale del Parmigiano del Wisconsin. Per capire se davvero si tratti di un temutissimo Mostro o semplicemente di un “altro” Parmigiano, con una sua storia, dignità e soprattutto ragion d’essere (mangiato!).
La polemica
Partiamo dall’inizio ovvero: che cosa è successo? Nella primavera del 2023 il professor Alberto Grandi rilascia un’intervista al Financial Times. La premessa è che da tempo Grandi si occupa di sfatare i miti sul cibo che amiamo raccontarci. Chi come me è sintonizzato sui podcast a tema food lo conosce come co-conduttore di DOI, Denominazione di Origine Inventata insieme all’autore Daniele Soffiati. Il focus del podcast sono proprio le narrazioni (poco veritiere) che stanno dietro a molte tradizioni culinarie italiane.
Nel pezzo si parla di storytelling gastronomico e gastro-nazionalismo, ovvero l’uso del cibo per costruire e “difendere” una presunta identità nazionale. Il primo è al servizio del secondo con esempi noti (carbonara, panettone, tiramisù) e meno noti. Fra cui il Parmigiano, che troverebbe la sua anima più “originale” (vicina alle origini) proprio in Wisconsin grazie all’immigrazione da area parmense e padana. Qui viene prodotto con metodi pressoché immutati da quelli del primo Novecento. In altre parole, laddove le tecniche del Parmigiano Reggiano si sono evolute e affinate, quelle del Wisconsin sono rimaste al gusto di cent’anni fa. Tuttavia il prodotto finale, seppur meno complesso ed elegante, non è per questo meno autentico.
Di fronte a queste dichiarazioni si è scatenato il solito polverone mediatico. Dai giornali, con titoli allarmisti (“Financial Times attacca la cucina italiana”) o diffamanti (“Le fake news autorazziste del professor Grandi”); al Consorzio stesso che è insorto al grido di “Ma la ricetta è millenaria” (poi ci arriviamo). Dall’altra parte, con il solito aplomb sottilmente ironico, le risposte che ci meritiamo (“Parmesan from Wisconsin? How dairy you?!”).
Ci sorprendiamo? Assolutamente no. Il periodo storico saturo di campanilismo, autarchia, sovranità alimentare (nel senso distorto del Ministero ovviamente) insegna che da cento anni a questa parte siamo ancora allo stesso punto. Che il populismo acchiappa-voti o acchiappa-like è l’unica forma vincente per farci appassionare e indignare – e ovviamente farci dimenticare quali siano le reali priorità e bisogni. Perché a gridare allo scandalo o direttamente incazzarci, scusate il francesismo, siamo prontissimi. Peccato accada soltanto per il cibo, o al massimo una partita di calcio.
Parmigiano del Wisconsin: la storia
Ma allora da dove spunta fuori sto Parmigiano del Wisconsin? Qual è la sua storia, come si fa, quali differenze ci sono con il Parmigiano Reggiano? Torno all’articolo incriminato e all’episodio 7 (prima stagione) e 27 (seconda stagione) di DOI. In entrambe il professor Grandi ce ne racconta storia e vicissitudini con riferimento anche alla controversia in atto.
Intanto ci insegna a chiamarlo per nome, ovvero Parmesan. Contrariamente al pensiero comune non si tratta di un fake Italian-sounding come altri prodotti contraffatti. Semplicemente c’entra il marketing: gli immigrati italiani degli anni Venti ne modificarono il nome rendendolo più facilmente pronunciabile in lingua inglese.
Chi erano questi italiani? Immigrati dell’area padana giunti negli USA per fame e in Wisconsin per opportunità. Soprannominato “America’s Dairyland”, lo stato dei pascoli infiniti fu naturalizzazione ideale per chi di mestiere da sempre lavorava il latte. Di certo costoro non erano malevoli distruttori di una “gloriosa” tradizione consolidata. Il Parmigiano è dal Duecento uno dei formaggi più noti della penisola. Tuttavia ha avuto i suoi alti e bassi e una qualità decisamente non codificata, vista l’assenza di qualsivoglia disciplinare (o suo concetto) prima degli anni Sessanta.
Chi da Parma-Reggio-Mantova giungeva in America conosceva un tipo di formaggio Parmigiano che oggi stenteremmo a riconoscere. Forme piccole da 10-20 kg, molto grasso (con “la goccia”), poco stagionato, in parecchi casi dalla crosta nera di cera per conservarlo meglio. Se da noi (complici i regolamenti CEE prima e la DOP poi) le tecniche si sono affinate per migliorare qualità e sicurezza, in America il Parmesan è rimasto pressoché invariato. Paradossalmente, dice Grandi, chi volesse assaggiare il formaggio “dei nostri nonni” (altro storytelling sempre vincente) dovrebbe preferire quest’ultimo al Parmigiano Reggiano.
Fra l’altro, in tempi non sospetti (2019, come eravamo ingenui!) il Sole 24 Ore aveva già sollevato l’argomento con il reportage “Wisconsin, viaggio nella valle dove nasce il Parmesan”. Il pezzo spiega bene come convivano Parmigiano e Parmesan, a partire dal marchio. Vero che negli States il trademark è assai meno regolamentato, tuttavia non sembrerebbe penalizzare la produzione italiana (che comunque da sola non sarebbe in grado di soddisfare la domanda mondiale). In altre parole, un americano distingue i due prodotti perché li percepisce appunto come “due prodotti”, diversi per qualità e prezzo (all’epoca 15$ contro 7,50$).
Insomma, il problema che si vuole porre a tutti i costi da una parte ce lo poniamo solo noi, dall’altra non esiste. Perché nessuno (e Grandi per primo) ha mai attaccato o sminuito il Parmigiano Reggiano. Semplicemente, dati e fatti alla mano, si è fatta luce su una storia comune a milioni di persone che parla di diaspora, impresa, gusto ritrovato. Che c’è, adesso neanche le storie a lieto fine vanno più bene?
Prova d’assaggio: Parmesan vs Parmigiano
Dopo tante premesse, finalmente la sostanza. Vi presento i due campioni:
- Parmesan SarVecchio™ Sartori Cheese, prezzo: 17,99$ alla libbra (0,450 chili)
- Parmigiano Reggiano 24 mesi, prezzo: 23,99$ alla libbra
Per una comparazione “fair” ho scelto un Parmesan stagionato (da sito non è dato sapere esattamente quanto). Il SarVecchio™ (notare la consonanza con la parola “stravecchio“) fa parte di una triade composta da Classic e Tuscan Blend già frantumato. La Sartori con sede a Plymouth, WI è stata fondata nel 1939 da Paolo Sartori. Si fregia di una genealogia da pedigree d’impresa, uno stemma nobiliare, un Master in Cheesemaking e diversi premi in ambito caseario.
Per il Parmigiano Reggiano non è segnalata un’azienda specifica. C’è senza dubbio la Dop, come si vede dalla scritta puntinata in crosta, e il certificato di importazione. La scelta dei 24 mesi di stagionatura è puramente dovuta alla disponibilità del supermercato.
Analisi sensoriale
Ho diviso l’analisi sensoriale in 4 parti: visiva, tattile, olfattiva, gustativa. Per quanto riguarda il vocabolario ho fatto in parte riferimento alla degustazione proposta dall’ONAF, Organizzazione Nazionale degli Assaggiatori di Formaggio. Ecco com’è andata:
- Esame visivo: il Parmesan ha forma squadrata e regolare, superficie diritta, colore giallo vivido. Il Parmigiano ha forma regolare, superficie leggermente irregolare, colore giallo pallido.
- Esame tattile: al taglio il Parmesan è duro e netto, ha pasta densa, carica e poco friabile. Il Parmigiano ha taglio morbido e friabile, pasta scarica e granulosa.
- Esame olfattivo: il Parmesan ha aroma di latte, erbaceo, dolce, poco complesso. Il Parmigiano ha aroma umami, pungente, intenso, complesso.
- Esame gustativo: il Parmesan spicca per dolcezza e sapidità, poco amaro e acido (meno bilanciato), non troppo untuoso. La persistenza del sapore è medio-bassa. Il Parmigiano è dolce e sapido, piccante, acido, astringente, con buona untuosità e non troppo amaro. Buon bilanciamento dei sapori, persistenza medio-elevata.
Le conclusioni: com’è sto Parmesan?
Sono viva. Ho affrontato il “mostro” (con la m minuscola stavolta) e ne sono uscita tutta intera. Anzi, semmai quello a pezzi è lui, evidentemente. Scherzi a parte, questo Parmesan non ha nulla da eccepire. Non è un formaggio cattivo o mediocre, sicuramente meno complesso e ampio del Parmigiano DOP ma non per questo meno piacevole. Non lo relegherei unicamente al condimento grattugiato o al ripieno/gratin del forno, anzi. Con una bollicina (o altri analcolici) va benissimo come aperitivo o snack da degustazione.
In conclusione, torno all’inizio per ribadire che il cibo non è un’entità fissa e granitica ad infinitum ma si evolve, si contamina, dialoga con chi lo fa e chi lo mangia. Prima di dirne male, di difendere a spada tratta un prodotto che nemmeno si conosce (anche se si pensa di saperne sempre più degli altri) bisogna informarsi. Come dice Alberto Grandi “studiate la storia”. O almeno assaggiate.