La storia del panettone non fa eccezione rispetto a quella di qualsiasi altro elemento tipico del periodo festivo: come ogni aspetto della tradizione natalizia, essa affonda radici in periodi remoti che si tingono di mito.
Si sa, a Natale tutti vogliamo credere di più a favole e magia, e ci impegniamo attivamente per mantenere viva un’iconografia surreale in cui storie millenarie si fondono con la leggenda (o pensate davvero che duemilaventi anni fa, mentre nasceva in Medio Oriente un bianchissimo Gesù, tra pastori già vestiti come nella Napoli del Settecento, in Palestina stesse davvero nevicando?).
A Dissapore amiamo la filologia gastronomica più del desiderio di un Natale incantato: saremo i vostri Grinch, quindi, cercando di “smitizzare” le origini del panettone ed esporre chiaramente cosa c’è di vero e certo nella storia del lievitato festivo per eccellenza, e cosa invece sia frutto di elaborazione fantastica.
Le leggende sull’origine del panettone
Le leggende sull’origine del panettone si rifanno, sommariamente, a tre filoni: il primo, cui abbiamo sommariamente accennato, vuole il pane dolce nascere come “pan del Toni”, il secondo ne riconduce l’origine all’inventiva di tal messer falconiere Ulivo degli Atellani, il terzo e ultimo filone, che chiameremo amichevolmente la “pista-suora”, lo vuole creato per la prima volta in un convento da una certa Suor Ughetta.
Da quest’ultima leggenda, meno accreditata tra le tre, cominceremo l’analisi: in un monastero di poverissime monache di clausura, la cuoca Ughetta decise di donare alle consorelle un Natale più felice impastando un pan dolce con uvetta, burro e canditi. Prima di infornarlo, la talentuosa suorina ne segnò con una croce la sommità: l’incisione, in cottura, donò la caratteristica forma a cupola. Fine della storia e fine dei dettagli. Un particolare curioso è che “Ughetta”, oltre che il nome della creativa monaca, sia in dialetto milanese il termine usato per uvetta. Che coincidenza, eh?
Seconda leggenda è quella relativa a Ulivo degli Atellani. Siamo a Milano, in epoca tardo quattrocentesca, sotto lo sfavillante dominio di Lodovico il Moro. Il falconiere, residente vicino alla chiesa delle Grazie e innamorato di Adalgisa, figlia di un panettiere locale, si fa assumere a bottega dal di lei padre. Per far capire che non scherza mica, si inventa il panettone, che fa piovere reputazione e quattrini sul piccolo forno milanese. Il padre della ragazza va in brodo di giuggiole, i due giovani si sposano e vivono per sempre felici e contenti.
Esiste della leggenda legata agli Atellani una variante: il membro della famiglia che crea il primo pan di Natale, in questo caso, è figlio del condottiero Giacometto degli Atellani, innamorato sempre della fornarina Adalgisa. La relazione tra i giovani è però osteggiata dalla nobile casata, per via delle umili origini della ragazza. In questo caso l’Atellanino si iscrive a bottega appositamente per creare il panettone, rendere la famiglia dell’amata celebre e quindi degna della propria stirpe. Così va, come da copione, coi due che si sposano sotto la benedizione dell’aristocratico matusa. Il nome del figlio di Giacometto Atellani in questa versione della vicenda? Ma è Ughetto, ça va sans dire!
Ultima e più accreditata leggenda, sia per rilevanza del contesto che per i suoi risvolti pseudo-etimologici, è quella legata al garzone Toni. Siamo sempre ai tempi di Lodovico il Moro, ma c’è di più: siamo alla corte di Lodovico il Moro, invitati al cenone di Natale del 1495 ci sono personaggi del calibro di Leonardo da Vinci e forse addirittura Chiara Ferragni.
La tavola è imbandita, il banchetto si svolge tra amene conversazioni e libagioni fiabesche, tutto sembra stia andando alla grande – ma mentre Da Vinci discute con Chiaretta nostra di possibili pose di nudo, in cucina si sta consumando un dramma.
Il cuoco di Lodovico sbatte a destra e a sinistra strappandosi i capelli, urlando come una prefica, inghiottendo lacrime amare: ha bruciato il dolce, già vede la sua testa su una picca esposta a mo’ di luminaria fuori dal Castello Sforzesco.
E mentre medita su un seppuku modello Vatel (andarsene sì, ma con onore) fa capolino da dietro un angolo, tutto sporco di fuliggine, il garzone Toni. “Boss, cioè, senti…” – gli fa il giovane – “c’è che io mi sono imboscato un zic di farina, quattro canditelli, un tocco di burro di quelli ciotti e li ho impastati per farmi Natale coi fra. Ora cioè, non so se ti garba la situa, ma ne è venuta fuori ‘sta roba qua che secondo me spacca, zio”.
Lo chef, che già un po’ stava in panico di suo, un po’ non ci aveva capito una mazza di quello che aveva detto Toni (che un cognome non ce l’aveva: era Toni, Toni Ebbasta), prende quello strano impasto con scarpatura e lo fa portare a tavola.
Tutti si leccano i baffi, Ferragni inclusa, e Lodovico il Moro convoca lo scalco per fargli pubblicamente i complimenti per l’audace invenzione.
E come si chiama questa… Torta, o cuoco? E lui: “L’è il pan del Toni!” – che, tramandatosi fino a noi, ha mutato il nome in pan-et-tone. Wow. Sipario.
La vera storia del panettone
Palesi frutti di fiction, le leggende sul panettone sembrano non lasciare dubbi su quando e dove il panettone sia nato: siamo nella Milano del tardo Quattrocento, dominata dagli Sforza.
Approfondiamo però la vicenda analizzandola in parallelo con le fonti scritte, le uniche affidabili quando si intende ripercorrere la storia di una ricetta: ne esamineremo velocemente alcune.
La prima attestazione scritta specificamente relativa a “Pani di Natale” impastati con burro, uvetta e spezie arriva solo un secolo dopo l’epoca presunta del “Pan di Toni”, ossia nel 1599, anno in cui il Collegio Borromeo di Pavia serve le specialità ai suoi alunni, registrando tutto puntualmente su un registro spese.
Notazioni antecedenti di prodotti riconducibili al panettone sono reperibili nella Storia di Milano del Pietro Verri, pubblicata per la prima volta nel 1783, che tramanda che già nel IX secolo “Il giorno del Santo Natale […] si usavano dei pani grandi; e si ponevano sulla mensa anitre e carni di maiale”.
In questo caso, la tradizione dei “pani grandi” – dei panoni, o meglio, panettoni – viene ricollegata al rito proto-cristiano cosiddetto “del ciocco”, durante il quale, nella notte di Natale, il capofamiglia tracciava a croce tre grandi pani per poi servirli a tutti i commensali, mentre gettava nel camino un ciocco di legno ornato di fronde e frutti, del ginepro e un sorso del proprio vino.
Appare evidente, in questa ritualità, un’ibridazione delle simbologie cristiane eucaristiche (il pane e il vino, la comunione del mangiarne) con quelle appartenenti ai riti propiziatori pagani di discendenza celtica/longobarda radicati sul territorio (il legno, i frutti del bosco, il fuoco).
L’usanza del ciocco, viene evidenziato in un manoscritto ambrosiano di fine Quattrocento, era rito comune ancora in casa Sforza negli anni Settanta di quel secolo: autore del manoscritto in questione, intitolato “De origine et causis caerimoniarum quae celebrantur in Nataliciis” (“Origine e cause dei riti che vengono celebrati nel periodo natalizio”) è infatti Giorgio Valagussa, al tempo precettore presso la dimora dei Duchi di Milano, che riporta il dialogo intervenuto tra lui medesimo e i figli di Francesco I; che gli chiedevano informazioni sulla cerimonia: “Panes tres magnitudine praestantes, ut scis, hic diebus conficiuntur” risponde il Valagussa, cioè “Come sapete, in questi giorni vengono preparati tre grandi pani”.
È forse a questo documento, e a successive elaborazioni aneddotiche e orali, che vanno ricondotte le leggende sul panettone di ispirazione sforzesca: cionondimeno, rimane che all’epoca del Granducato di Milano quella dei “grandi pani natalizi” fosse, se prendiamo per buona l’attestazione del Verri che la fa risalire a ben cinque secoli prima, già una tradizione antica.
Sempre legata a doppio filo agli Sforza, e per la precisione alla figura dell’antenato della dinastia Gian Galeazzo Visconti, è invece una circostanza storica che segna in maniera rilevante l’usanza di consumare per Natale “pani speciali”: questa è, nello specifico, l’emanazione di un editto comunale avvenuta nel 1395 (anno dell’insediamento del Visconti come Duca di Milano).
L’ordinanza permetteva anche ai prestinée (panifici) cittadini che rifornivano le classi medie e basse di produrre eccezionalmente, nel periodo natalizio, pani di frumento, nel resto dell’anno destinati esclusivamente all’aristocrazia. È ipotizzabile che questo speciale pane natalizio, per la sua natura lussuosa, fosse conosciuto come pan di siori o, dato appunto il suo “tono” esclusivo, come pan de ton.
È incerto quindi se a livello etimologico il lemma “panettone” derivi da una contrazione di quest’ultima locuzione, o se sia piuttosto un semplice accrescitivo relativo alle grandi dimensioni del lievitato: certo è che nel 1606 il termine risulta già consolidato, comparendo nel primo dizionario milanese-italiano (il Varon milanes de la lengua de Milan di Giovanni Capis) come Paneton de Danedaa.
La forma lessicale rimane pressoché inalterata da allora fino ai nostri giorni, con codifiche successive che ne cristallizzano invece procedimento e ingredienti: nel dizionario milanese-italiano di Francesco Cherubini, stampato per la prima volta nel 1839, il “Panatton de Nadal” è descritto come “Spe’ di pane di frumento addobbato con burro, uova, zucchero e uva passerina o sultana”.
Risale al 1853, e per la precisione al ricettario di Giovanni Felice Luraschi “Il Nuovo Cuoco Milanese Economico”, la prima menzione tra gli ingredienti del lievito: bisognerà attendere ancora un anno per vedere inclusi i canditi, e nella fattispecie quelli di cedro, codificati nel 1854 dal “Trattato di cucina, pasticceria moderna” per mano di Giovanni Vialardi, cuoco di casa Savoia.
Ingredienti a parte, fino a questo momento il panettone è una sorta di pan basso con canditi e uvetta dal tenore di grassi molto ridotto rispetto al dolce che siamo abituati a pensare oggi: la rivoluzione della forma, e con lei della formulazione, arriverà negli anni ’20 del Novecento con il talento di Angelo Motta.
Sarà infatti il pasticciere, industriale e imprenditore di Gessate ad aumentare per la prima volta il contenuto di uova e burro nell’impasto, circondando l’insieme con un pirottino in modo da favorire uno sviluppo verticale anziché in larghezza: l’ispirazione deriva probabilmente dal kulič russo, dolce pasquale che il Motta aveva preparato in passato per la comunità ortodossa di Milano; simile al panettone ma profumato con spezie orientali anziché con uvetta e canditi.
Al Motta si deve anche la prima produzione di massa, che democratizza (sigh) il prodotto artigiano fino a portare, in appena un centinaio di anni, ai tristissimi funghetti di cemento e sultanina confezionati in cellophane da 750gr che vediamo oggi languire sugli scaffali dei supermercati.
Se da un lato però la serializzazione del panettone ne ha intristito la qualità media, dall’altro essa ne ha sdoganato le barriere geografiche ben oltre le terre degli Sforza; rendendo per noi italiani impossibile, da Bolzano a Ragusa, immaginare un Natale senza di lui: il re della tavola festiva, dolce che chiamiamo pan de ton, panattone o, visto che a Natale credere alle favole in fondo piace anche a noi Grinch, il Pan del Toni. Ebbasta.
[Immagini: Rossella Neiadin e Nunzia Clemente per Dissapore]