Chissà se questo ragazzo si rende conto di quanto le condizioni che hanno dato vita al suo apprendistato da panettiere siano probabilmente irripetibili: un misto della massima libertà di movimento in puro stile Ryanair alla minima libertà di movimento in puro stile Covid. Matteo Campeotto è un esponente di quella generazione che ha viaggiato come nessun’altra prima; da Treviso, città in cui è cresciuto, con l’aereo si raggiungono le principali capitali europee in un’ora e mezza, per andare a Milano invece ci si impiega il doppio del tempo. Complici anche gli studi in lingue, inglese e svedese all’università di Venezia, ha girato parecchio l’Europa per studio e per diletto. Dopo l’università ha cominciato a lavorare nel mondo degli speciality coffee, una passione nata durante i suoi viaggi. Nel 2020 è partito un anno per l’Australia e lì ha lavorato in una caffetteria. Non è così frequente che ci si avvicini al mondo dei lievitati partendo dal caffè, ma è pur vero che la caffetteria, in alcuni paesi anglofoni e nel Nord Europa, è diventata tutt’uno con un certo tipo di pane, la pagnotta con il lievito madre, le farine selezionate e un gran daffare di alveoli.
Così Matteo aveva cominciato a fare il pane da autodidatta già a casa, come tutti, con un pezzo di pasta madre liquida regalato da un amico, e poi aveva proseguito anche in Australia, con un pezzo di sourdough comprato in una bakery, e insomma ha finito per lasciare il mondo del caffè in favore di quello del pane. La svolta, come per tutta la sua generazione è arrivata con il lockdown in cui non solo il lavoro nella caffetteria languiva, ma il tempo privato finalmente recuperato gli ha permesso di esplorare compiutamente la sua passione.
Rientrato dall’Australia, dove ha trascorso il primo lockdown, sapeva che voleva fare il pane, e un pane indie. Come tutti i giovani in cui arde il fuoco sacro, il pane non aveva compromessi, e quello che aveva mangiato da piccolo non era il pane che voleva fare. Ha cominciato a mandare curricula nelle realtà italiane (poche) che gli piacevano, ma non son mai tempi facili qui da noi, figurati dopo il lockdown. Così, non ricevendo risposta, ha mandato qualche curricula all’estero, e da Copenaghen gli han risposto subito: uno stage pagato di 6 mesi al Buco, una bakery – roastery con un nome italian sounding e una poetica senza compromessi che imponeva di usare solo prodotti danesi: dalla farina all’erba proveniente dal foraging locale, che sa di vaniglia ma vaniglia non è. Al Buco faceva il pane, e collaborava a fare i croissant sfogliati “più buoni che abbia mai assaggiato”.
Dalla competenza all’impresa alimentare domestica
Quando era ancora a Copenaghen ha ordinato un Rofco, un forno belga che è l’unico a poter essere usato in casa in quanto monta una presa tedesca e non una presa industriale. Sono forni abbastanza introvabili: chi vuole fare il pane in casa in modo professionale ne deve comprare uno (almeno fino a un anno fa quando anche altre aziende si sono messe a produrre questi forni con la presa domestica). Accordandosi sull’acquisto di un forno con un difetto a una manopola, l’ha ottenuto in 2 mesi e il forno è arrivato in Italia prima di lui.
La legislazione sulle imprese domestiche (IAD) è abbastanza nuova, è una legislazione europea del 2004 recepita anche in Italia, eppure, se applicata con senno, è un’ottima legge per partire con un’impresa. Nel testo si dichiara che per produrre cibo in casa destinato alla vendita occorre avere le stesse norme igieniche di un ristorante. Tuttavia è sufficiente, oltre ad avere le opportune formazioni in campo di trattamento degli alimenti, avere uno spazio consono nella propria cucina: un tavolo dedicato alle preparazioni dell’impresa ben separato da quello delle preparazioni domestiche, e uno spazio che non sia ibrido (se avete l’open space salotto cucina non potrete aprire una IAD). Infine ci vuole un servizio igienico dedicato all’impresa, cosa non troppo difficile in una casa con due bagni, e il gioco è pressoché fatto. Al massimo vi faranno cambiare il rubinetto della cucina con uno professionale con l’apertura a gomito, come è successo a Campeotto. Insomma, se non avesse acquistato il forno, questo del rubinetto sarebbe stato l’unico investimento prima di cominciare a vendere ufficialmente il suo pane.
Gli investimenti tuttavia sono proseguiti con un’impastatrice professionale e un frigorifero per le maturazioni, ma solo quando è diventato palese che i volumi di lavoro non potevano più essere gestiti dagli impasti a mano e dal frigo di casa.
La nascita di Mjol
A febbraio 2022 nasce Mjol, il pane nordico. In realtà per stessa ammissione di Campeotto, il pane nordico non significa nulla. È prima di tutto un nome legato alla sua esperienza, dato che a imparare il pane a livello professionale è andato a Copenaghen, e dato che il primo prodotto per cui è stato conosciuto nel circuito dei fornai indie italiani sono state le kanelbullar, le girelle alla cannella o al cardamomo tipiche dei paesi scandinavi.
Mjol invece, (pronuncia: MIOL), significa farina in danese, un po’ come quei secchioni del liceo classico [Campeotto non ce ne vorrà, che un po’ secchione lo è], che poi passano la vita a dare i nomi in greco a tutti i loro progetti.
C’è da dire che questa del pane nordico è effettivamente una voga nel Nord Europa, portata avanti tra gli altri dal Noma, che si ispira al lavoro di Chad Robertson, il lievitista di Tartine Bakery celebrato tra gli altri da Michel Pollan in Cooked. Insomma non si tratta affatto di una definizione completamente aleatoria, ma semplicemente ermetica, o forse, come spesso accade quando una voga prende piede, Mjol si inserisce in un filone più per istinto che per vera consapevolezza, e questo, il più delle volte, è un merito.
Dopo circa 6 mesi dall’apertura Mjol vende circa 30 kg di pane al giorno, per 5 giorni alla settimana, e rifornisce tre locali di Treviso. Il tutto semplicemente promuovendosi con una pagina Instagram e una lista broadcast su WhatsApp.
Il lavoro
Nel corso di questi mesi quello che si è modificato è soprattutto l’organizzazione: Matteo ha dovuto star dietro all’aumentare delle ordinazioni che crescevano più di quanto avesse previsto, e a un organizzazione del lavoro che prevede il one men show: fa lui gli acquisti, gli impasti, la promozione e le consegne. Si alza alle 3, due o tre giorni a settimana, per cuocere gli impasti ma spesso nel primo pomeriggio ha finito le consegne e si concede una siesta. Provo a chiedergli un paio di volte se è stanco, ma nega, con quella noncuranza tipica di qualcuno che è felice, e non guarda troppo al dettaglio.
Da uno che a Copenaghen lavorava 50 ore a settimana (un ful time in backery più le serate da cameriere in un bar) il lavoro in proprio deve sembrare una svolta, o forse Campeotto ha un’indole da Iron man.
Il pane
Il pane di Mjol è un pane buono, preparato con la farina del mulino Terre Vive, un mulino della provincia di Treviso che Campeotto aveva conosciuto da fornaio amatoriale. Un mulino che macina grano italiano, proveniente da Veneto e regioni confinati, prevalentemente a pietra.
Alla domanda se preferisca i grani antichi o quelli moderni Campeotto mi risponde “quelli buoni”, infatti il suo non è un pane ideologico, ma un pane onesto. Il suo impasto base è una tipo 1 con una piccola percentuale di farro spelta e una piccola percentuale di segale, inserita per il sapore certo, ma anche per conferire all’impasto un colore meno bianco, perché, candidamente, Matteo mi spiega che le persone ormai associano il pane bianco con il pane industriale del supermercato.
Oltre a questo impasto base, Mjol propone al suo pubblico un pane profumato o aromatizzato, una volta alla settimana, secondo la stagione e l’estro del suo creatore: miele e fieno greco, feta e zucchine, aglio nero.
Poi c’è la sperimentazione vera e propria: le frise o il pane al latte giapponese, che porta avanti soprattutto nel periodo estivo, quando fisiologicamente la domanda decresce.
All’assaggio è un pane compatto (la pagnotta da 800 grammi ha un diametro di circa 25 cm), ma tutto sommato bene alveolato, con una crosta sottile e un profumo intenso, la cosa che più mi stupisce è la quasi assenza di note acide nonostante l’uso della pasta madre liquida. Si tratta di uno di quei pani che rimane morbido per almeno tre giorni, e poi può essere riscaldato nel forno per consumarlo fino a cinque. È un pane “facile”, senza che questo significhi semplice o negletto o sia in nessun modo un disvalore; è piuttosto un pane assennato, fatto per ritagliarsi un pubblico abbastanza ampio, un pane che piace a molti, anche se non a tutti.
Inoltre Mjol tiene una politica di prezzi democratici: questo non è il pane che compra il professionista per vezzo o per status symbol, ma un pane per tutti. La pagnotta base di circa 800 grammi costa 5 euro, quella speciale invece è a 8.
Il futuro
Nel futuro di Mjol c’è una bakery, le IAD funzionano per avviare un lavoro, ma se hai 30 anni e la voglia di crescere a un certo punto è fisiologico che ti stiano strette. Al momento però Campeotto sta facendo i conti con il mercato dei fondi commerciali in centro che non è proprio alla portata di tutti. Nel progetto c’è un locale con gli speciality coffee, gli sfogliati e il pane, pensato per le colazioni e per la vendita al dettaglio, ma aperto anche a pranzo con una cantina senza birre, ma con qualche vino naturale. Un posto eccezionale, nel panorama della Treviso di Signore e Signori, che vorremmo provare presto.