Può una patatina fritta spiegare le storture e i paradossi del commercio globale? Certo: soprattutto se si tratta una patatina che non c’è. Da qualche giorno in Kenya sta succedendo un fatto strano: nei punti della catena americana KFC sono sparite le French fries. Esatto, non si trovano più patatine fritte, sostituite da specialità locali come il mais o l’ugali. Il motivo? Sempre quello: la crisi della supply chain, le difficoltà che da vari mesi a questa parte sta sperimentando la catena globale di approvvigionamento delle merci, e quindi anche del cibo. Le difficoltà della logistica hanno portato ad aumenti vertiginosi dei prezzi in Cina, e a situazioni anche buffe come i cartonati messi al posto delle verdure vere sugli scaffali dei supermercati nel Regno Unito. In Giappone, proprio le patatine fritte sono state al centro di un altro caso, con un altro colosso del fast food, stavolta McDonald’s, che pur non arrivando a sospendere la vendita ha dovuto diminuire le porzioni.
E allora, qual è la stranezza? Il fatto è, per dire, che il Kenya è un grande produttore di patate: la coltivazione del tubero è seconda solo a quella del mais nel paese africano, e il consumo è elevatissimo. Perché allora Kentucky Fried Chicken non compra le patate in loco? La storia è stata raccontata, con tanto di spiegazioni e approfondimento, dal giornalista radiofonico keniota Waihiga Mwaura alla BBC. Le patate che vengono fritte nei KFC del Kenya vengono importate dall’Egitto, e arrivano già pre affettate. Qual è, dunque, il problema delle patate keniane? Che non soddisfano gli standard qualitativi volti ad assicurare la produzione di un cibo “sicuro per il consumo da parte dei nostri clienti”, come ha detto allo Standard newspaper Jacques Theunissen, chief executive in Africa orientale di KFC. Per metterci una pezza, il manager ha aggiunto che però la farina dei panini e gli ingredienti dei gelati vengono dal Kenya, e l’azienda si è impegnata a testare altri prodotti locali.
Il caso ha scatenato le proteste dei consumatori, con proclami di boicottaggio, e la fantasia delle catene concorrenti, che sono saltati sulla preda, con instant pubblicità sul genere “da noi le patatine le trovate sempre”. L’analisi di Mwaura però è interessante perché ripartisce le responsabilità in maniera equa: da un lato è infatti assurdo che KFC è presente in Kenya dal 11 anni e non ha ancora trovato un approvvigionamento locale. Dall’altro, nel paese africano le patate vengono coltivate soprattutto da piccoli agricoltori, e se questo da un lato assicura maggiore genuinità al prodotto, non li avvantaggia nella contrattazione con i colossi del food. Il giornalista keniano fa notare poi come nel suo paese si sia avuto un distacco brusco dal mondo agricolo, cosa che altrove non è successa: nel vicino Uganda per esempio “anche i politici e le persone di un certo livello vivono fuori città, dove spesso hanno terre e orti in cui coltivano il loro cibo. In Kenya non succede”. Il risultato è che il paese dipende dalle importazioni per beni essenziali e che potrebbe produrre da sé: il pesce viene dalla Cina, lo zucchero dal Brasile e il tabacco dalla Turchia.
Infine, c’è il solito problema della convenienza: è un paradosso, ma ci sono casi in cui un cibo ha costi di produzione talmente bassi in un altro luogo, da risultare più economico anche dopo che si sono aggiunti i costi di trasporto. Certo, salvo poi impallare il sistema quando questa girandola di spostamenti globali si inceppa. Come le patatine fritte insegnano.