Per natura ho sempre avuto una certa attrazione per il concetto di tabula rasa, quel deserto visivo e sensoriale che mette un po’ a disagio ma su cui qualunque cosa nasca ha a che fare con il successo. Sarà per questo che mi piace la città in cui vivo, Mestre, tabula rasa in cui la minima miglioria desta un certo entusiasmo, e sarà per questo che svegliarmi alle 7 di un sabato mattina gelato per andare fino a Porto Viro, nel mezzo del Parco del Delta del Po non mi è pesato affatto, anzi mi è piaciuto.
Il Parco del Delta del Po è una landa piena di possibilità, ma dove quasi nulla è ancora passato dalla potenza all’atto. Ci potrebbe essere un fiorente turismo, visto che il posto è bello da far paura, ma non c’è; ci potrebbe essere un’agricoltura spaccaculi, anche nei confronti della floride Emilia e Lombarida, ma niente. E’ un posto dove ancora si può spingere lo sguardo a perdita d’occhio, ogni tanto si incontra solo qualche zuccherificio abbandonato, ormai in rovina, perché lo zucchero di barbabietola, che qui aveva la sua maggiore produzione in Italia è passato di moda, e non è arrivato nulla a sostituirlo. Ora, a perdita d’occhio, ci sono campi di mais per tutta l’estate, e timidi accenni di grano d’inverno. Sulla terra fertile non ci fai solo orticoltura, è uno spreco, e poi di produzioni tipiche del Delta del Po, quelle che fanno vendere la roba al mercato, qui non ce n’è.
Però la tabula rasa… Sono diretta in un azienda, la Agrifree, che da meno di 7 anni si è messa a fare pasta biologica con il grano autoctono del Delta, mi interessa capire cosa gli è preso: se non lo fa nessun altro un motivo ci sarà. La Agrifree è un nome (ora che ci penso simpaticamente frikkettone), per un’azienda che è lì da 4 generazioni e in cui l’ultima, quella di Giorgia, la figlia di Marco Fregnan, ha fatto una virata decisa verso un biolgico quasi senza compromessi che comporta, economicamente parlando, vantaggi e svantaggi.
Partiamo però dall’inizio, e da un affermazione che potrebbe stupire: sul campo l’agricoltura biologica può essere più economica per il contadino. E non solo nel campo dell’ortofrutta, ma anche nella produzione cerealicola.
Come funziona il processo di semina e raccolto
[Breve disclaimer semplicistico sull’agricoltura convenzionale – grazie alla chimica (concimi, pesticidi e diserbanti) e alla tecnica (macchine agricole sofisticatissime) il convenzionale funziona più o meno così: pianto quello che voglio quando voglio e tiro su sempre un raccolto accettabile]. Chiaramente questo “quello che voglio quando voglio” ha un costo economico importante. Qualche esempio: se devo seminare qualcosa che cresce in contemporanea con le infestanti devo diserbare il terreno prima, magari più di una volta, acquistando e spargendo il diserbante e poi passando con il costoso trattore che ho comprato o che prendo a noleggio; se devo seminare qualcosa che non troverà nel terreno abbastanza nutrienti per venire su devo aggiungere cose, che devo sempre comprare e che costano care.
Nel biologico i concimi e i diserbanti ammessi sono pochi e costano ancor più di quelli tradizionali, per questo un contadino che sceglie il biologico ha tutto l’interesse a non usarli. Per poterlo fare deve avere un terreno fertile e tenero e fare attenzione a quando semina perché le sue piantine non vengano soffocate dalle infestanti.
Per avere un terreno fertile si usa la rotazione delle colture, in modo che le diverse piante assorbano solo alcuni nutrienti dal terreno e lascino intatti, o addrittura ne accrescano altri. L’altra strategia per il terreno fertile è il letame, in particolare la pollina, cioè le deiezioni degli avicoli, che ha una percentuale altissima di paglia, che mantiene il terreno morbido. Si dice che in un campo ben mantenuto, un tondino di ferro di un metro possa penetrare il terreno senza sforzo. Andatevi a fare un giro su un campo convenzionale e provate a prendere un pezzo di terra, vi caverete le unghie senza riuscirci.
Per non essere minacciati dalle infestanti si semina prima, cioè, quando si può, si semina a novembre, quando il ciclo delle infestanti, che va da primavera a ottobre, è finito e quindi le piantine seminate, quando nasceranno, saranno sul campo sgombro. Seminare a novembre non sembra una bella idea, ma forse qui un po’ aiuta il cambiamento climatico e gli inverni miti. Se però chiedi a un contadino biologico ti dirà che è merito del suo terreno e del suo letame.
Infine l’uso dei macchinari: se non ci sono infestanti e il terreno è fertile si possono fare solo tre passaggi in campo, al massimo quattro: l’aratura, la semina, il raccolto ed eventualmente un passaggio per sradiccare le erbacce quando sono ancora piccole. Nel convenzionale i passaggi sono almeno due in più: quello col diserbante e quello per la concimazione. Inoltre, se il terreno è morbido non servono trattori molto potenti, e quindi molto costosi, dunque anche qui si risparmia rispetto alla coltura convenzionale.
Ovviamente il fatto che gestendo un campo in questo modo faccia spendere meno per la produzione non è il solo aspetto positivo della faccenda: la ricaduta ambientale è importante e oltre al fatto che il prodotto immesso sul mercato è spesso migliore.
Cosa succede dopo il raccolto?
Qualcosa si inceppa questo punto, perché la produzione cerealicola biologica, che fin qui potrebbe essere addirittura più economica del convenzionale, rende uguale al convenzionale, se non meno. Questo accade per un motivo: quello che costa è la trasformazione. Il prodotto finito che sia pane, pasta o grissini, per essere marchiato biologico, deve essere prodotto in aziende certificate, il che significa che il mulino deve essere biologico, e anche il pastificio o la pasticceria o il panificatore lo devono essere. Per ottenere le certificazioni bisogna rispettare degli standard, questi standard costano dunque la trasformazione del prodotto biologico è più cara, senza considerare che queste aziende sono poche. Di contro la grande distribuzione tiene, per ragioni di mercato, un prezzo del prodotto finito molto competitivo; non è infrequente, sugli scaffali del supermercato, trovare alcuni prodotti bio, magari private-label, che costano meno di un prodotto non biologico.
Questo inghippo è probabilmente quello per cui non sono molti quelli che scelgono di convertire al biologico e per cui, quelli che lo fanno, avviano parallelamente un processo di trasformazione e vendita del loro prodotto completamente autogestito, il che permette di guadagnarci qualcosa in più. Non molto perché, ad esempio, sulla trasformazione e la vendita che Agrifree fa del suo grano in pasta l’utile si aggira intorno al 10%.
Qui temo che ci sia un secondo ordine di problemi: alcune produzioni bio, soprattutto quelle ortofrutticole, sono ormai sdoganate, ma nessuno ricorda più come erano alcuni prodotti, in primis la pasta, prima che ci fossero le grandi aziende produttrici. Un tempo si diceva che per sostenere il biologico bisognava accontentarsi delle mele piccole e ammaccate, ora quelle mele sono così hipster che nessuno si sognerebbe di non comprarle. Nessuno però pensa mai che la pasta che non scuoce dopo 12 minuti di bollitura non è compatibile con nessuna piccola produzione locale, tantomeno bio.
Poi c’è la forza delle idee di ogni singola azienda, l’Agrifree per esempio ha scelto la strada più radicale, selezionando piccoli mugnai locali, che garantiscono di molire solo il loro grano, senza mescolarlo con quello di altri produttori, e ovviamente questo ha un costo superiore.
Come trovare la quadratura economica
La bella notizia che porta questa azienda però è che il progetto si tiene su solide basi economiche. La prima di queste non è facilmente replicabile ma è un ottimo spunto, la famiglia ha anche degli allevamenti avicoli a terra, senza antibiotici che vende ad una grande azienda, questo gli permette di avere letame usabile in agricoltura biologica (dopo uno stockaggio di 6 mesi) a costo zero. La seconda notizia è che questi prodotti hanno un ottimo successo all’estero, soprattutto il Giappone e l’Arabia Saudita sono due mercati molto attenti alle piccole produzioni locali europee. L’altra fonte di sostentamento è il circuito ho.re.ca che timidamente cerca di avvicinarsi; se vi state domandando perché uno chef di Rovigo dovrebbe comprare una pasta, per quanto ottima, che venga dal Trentino o dal Salento, quando può sostenere una buona produzione locale, la risposta è semplice. Perché l’ottima pasta blasonata ha una resa costante ottenuta grazie alla larga scala, che permette di “tagliare” i grani meno forti con altri e avere una pasta che tiene la cottura sempre allo stesso modo. La pasta del piccolo produttore invece un anno cuoce in 6 minuti, l’anno dopo in 4: dipende.
Diversificare la produzione sembra essere l’altro cavallo di battaglia delle piccole realtà bio, per esempio in questa piccola azienda di Porto Viro hanno fatto l’olio di semi di girasole, su cui sono convinta il ricavo dovrebbe assestarsi su qualcosa di più, dato che le fasi di trasformazione sono di meno rispetto alla pasta.
Quindi?
In conclusione l’agricoltura biologica non è ancora un settore in cui si fa la bella vita, i guadagni (soprattutto nel settore cerealicolo) sono relativi e ci si fa il mazzo. Peccato, perché le premesse per avere campi coltivati biologicamente ci sarebbero tutte, ma poi il prodotto arrivato sul mercato, si scontra con “il sistema” fatto per produzioni su larga scala con un rendimento costante. Se negli anni 90 vi siete sentiti dei fighi perché compravate le mele antiche ammaccate, adesso dovreste cercarvi un piccolo pastaio o un mugnaio che vi forniscano una materia prima difficile, ma buona, che dovrete imparare di nuovo a usare. Mangiandola però vi sentirete ancora dalla parte dei benefattori; in fondo la differenza tra il bio e il convenzionale sta ancora tutta lì.