Devono esserci stati dei ritrovamenti di vecchissime, enormi botti di balsamico nelle acetaie modenesi e reggiane, che hanno permesso ad alcuni fortunati produttori di poter immettere sul mercato preziosissime ampolle di di aceto balsamico centenario, ovviamente a prezzi coerenti, giustificati dall’idea di un invecchiamento secolare. Un po’ come quelle rhumerie caraibiche che rinvengono nella cantina di qualche villa botti piene di distillato vecchio decenni, permettendogli lussuose edizioni speciali di annate vintage: questa era la sarcastica risposta che mi ero dato a fronte della diffusione, sugli scaffali delle botteghe specializzate e negli e-commerce gourmettari, di queste articolate confezioni, spesso complete di cofanetti in legno, che portano in bella mostra il numero “100” accompagnata da un’ampia varietà di termini pescati più o meno dal settore dell’acetificazione -”100 travasi”, “100 barrels”, “100 riserva”- evitando però accuratamente la parola “anni”, che invece si trova nelle descrizioni e nei testi prodotti dai venditori. Particolare già sospetto, ma proseguiamo.
La diffusione di questi prodotti sembra essere in aumento, nonostante i prezzi non proprio abbordabili, e i social del cibo non potevano non prenderne atto. Mi sono imbattuto in un video del vincitore di MasterChef 6 e da poco ex chef del Vibe di Milano (in attesa di una sua nuova apertura in piazza Duomo) Valerio Braschi in cui, con una prosopopea un po’ alla Filippo Champagne, parlava del suo “Rolex in cucina”, una boccetta di aceto “100 Riserva”, che lui chiamava con orgoglio “cent’anni”, mentre sulla scheda prodotto del sito del produttore la parola “anni” sembra bandita, ma si fa solo un generico riferimento al “lunghissimo tempo nelle batterie”, ed è invece ben spiegato come l’etichetta del prodotto sia in oro 24 carati, in un mix di riferimenti vagamente contraddittori che non danno certezze al consumatore, anche se qualche utente un po’ più sgamato è sembrato non apprezzare. Nei commenti al video, fortunatamente, un utente un po’ più sgamato solleva il problema, unica eccezione.
Interessante poi il caso di Roberto Di Pinto, talentuoso chef del Sine di Milano dall’indovinata presenza social, che per il suo “risotto 100” gioca su una versione extra lusso del sempiterno abbinamento Parmigiano e Aceto Balsamico, con un formaggio cento mesi e un aceto cento anni. Di Pinto, però, dimostra ben altro stile e in qualche modo corregge il tiro, affermando nel prosieguo del video che è la botte ad avere “oltre cento anni di storia”, lasciando sottinteso tutto ciò che ne può conseguire. Potremmo proseguire all’infinito con gli esempi, ma ormai avete capito dove stiamo andando a parare: gli aceti di cento anni non esistono, eppure vengono proposti come tali.
L’aceto di cent’anni non è una truffa, però..
Chiariamo innanzitutto una cosa: salvo rari casi (di frode in commercio, beninteso) le aziende propongono questi prodotti in maniera tecnicamente corretta. Non indicando la Denominazione di Origine Protetta “Tradizionale” in etichetta, non rientrano nel disciplinare delle DOP di Modena e Reggio Emilia (che vieta il riferimento all’anno di avviamento ed altre eventuali indicazioni che non inducano il consumatore in errore su una qualità particolare, se non la dicitura extra-vecchio per prodotti superiori ai 25 anni d’invecchiamento) e, come abbiamo già appurato, utilizzano una miriade di virtuosismi verbali per evitare qualsiasi tipo di affermazioni che specifichi che il contenuto delle preziose bottigliette sia effettivamente invecchiato cento anni.
Resta però il dato di fatto che chi questi prodotti li rivende o li promuove, li racconta immancabilmente come prodotti con cent’anni e passa di invecchiamento, e il numero cento sempre bene in vista sul packaging alimenta il malinteso. Si cammina su una linea sottile tra un marketing furbo ma legittimo e un eccesso di malizia che va a discapito della chiarezza verso il consumatore. L’unica certezza è che questo escamotage si riflette molto chiaramente sui prezzi che si attestano, per 100ml, a cifre che vanno dai seicento agli oltre mille euro, ben aldilà di un prodotto come l’Aceto Balsamico Tradizionale 25 anni (sia esso di Modena o Reggio Emilia), la cui presenza di prodotto invecchiato è garantita dall’analisi sensoriale di una commissione esterna che degusta alla cieca.
Va da sé che di fronte alla possibilità di incassi del genere, tutti gli attori della filiera hanno tutto l’interesse ad alimentare il fraintendimento piuttosto che la trasparenza, approfittando della scarsa conoscenze del pubblico sul prodotto e spingendo una comunicazione già basata su meri numeri -12, 20, 25 anni di invecchiamento- esasperandola in una gara al “chi ce l’ha più vecchio”, un fenomeno che ha già contagiato varie categorie merceologiche e relative produzioni, dalle stagionature infinite di salumi e formaggi alle frollature interminabili di carni e pesci, ai lieviti madre ultracentenari.
L’aceto centenario non esiste
Fin qui abbiamo parlato delle questioni commerciali e di marketing, ma ci sono anche molte riflessioni tecniche da fare al riguardo che giustificano una dichiarazione tranchant come “l’aceto centenario non esiste”. Per questo mi sono affidato a uno dei pilastri della cultura acida italiana: Andrea Bezzecchi, patron di Acetaia San Giacomo, e ideologo di svariate iniziative volte a promuovere la cultura dell’aceto, come Acetyca, progetto di divulgazione del “rinascimento sour” e sviluppo di nuovi prodotti. Gli spunti nati da questa chiacchierata sono molteplici e parecchio interessanti.
“Innanzitutto bisogna capire di cosa si parla. Non essendoci una regolamentazione sul prodotto, la prima ipotesi è che si riferiscano a un prodotto fatto al cento per cento di aceto di cento anni, il che non ha assolutamente senso”. Lo spiegone di Andrea non lascia spazio a dubbi: la concentrazione del liquido dovuta all’evaporazione e la forte presenza di glucosio e fruttosio farebbero cristallizzare la massa, e dopo cento anni ci si ritroverebbe con un sasso invece che con dell’aceto, uno dei motivi per cui la produzione del balsamico prevede travasi e aggiunta di aceto nuovo, secondo il metodo Solera. “Questo limite chimico-fisico, che non può essere superato ed impone il rincalzo annuale con prodotto più giovane, sposta l’attenzione sulla vera finalità di questo peculiare procedimento. Quello del Balsamico (solo il Tradizionale, non ovviamente l’industriale) è un processo che non vuole invecchiare all’infinito il prodotto contenuto nelle botticelle, in modo che, più vecchio è meglio è, bensì tende a trovare un equilibrio, una stabilità. Vuole semplicemente tenerlo in vita … per sempre. Questa stabilità garantisce che il prodotto possa essere mantenuto vivo all’infinito e, quindi, passato di generazione in generazione. La vera funzione del Balsamico Tradizionale era questa. Molto più romantica e simbolica. Tra l’altro poi ci sono troppe variabili in gioco che influiscono sulla qualità del prodotto finale, e non è sempre detto che più vecchio sia obbligatoriamente più buono. ”
Ora immaginiamo che questi aceti centenari seguano un processo più simile a quello del Balsamico Tradizionale, con i trasferimenti annuali dalle botti più grandi a quelle più piccole della batteria, e con il prodotto finito che contiene una quantità sufficientemente caratterizzante dell’aceto più vecchio indicato in etichetta. Quanto sia sufficiente non può essere specificato a priori ma, lo ribadiamo, è stabilito da una commissione di degustazione che assaggia alla cieca e attribuisce dei punteggi, con un sistema di valutazione leggermente diverso tra Modena e Reggio Emilia.
“Anche in questo caso non esistono i presupposti per un aceto centenario. Tenendo conto dei prelievi e dei rincalzi (l’aggiunta di aceto fresco nella prima botte della batteria, quella più grande), per poter arrivare a un prodotto che contenga una quantità sufficiente di aceto così vecchio, tale da caratterizzare tutta la massa, servirebbero batterie lunghissime, ben oltre le sette o nove botti solitamente impiegate, o anche le trenta dei periodi passati. Di conseguenza le batterie dovrebbero essere strutturate in modo completamente diverso, partendo da barili enormi e finendo in botti da decine e decine di litri (per evitare proprio l’eccessiva evaporazione) e non mi risulta proprio che ce ne siano di impostate così”.
Ma come si può tutelare il consumatore nell’acquisto di un prodotto del genere? La risposta più immediata sarebbe che non deve essere tutelato, visto che le aziende non fanno nessuna dichiarazione specifica sull’effettivo invecchiamento dei prodotti che esibiscono un bel “100” in etichetta. Ma se, riprendendo l’espressione di Di Pinto, in realtà condivisa da molti acetifici, parliamo di “storia della botte”, come si fa ad essere certi dell’effettiva anzianità dei materiali nelle acetaie? Ci risponde Bezzecchi: “servirebbero prove circostanziali. Documenti di acquisto dei barili, registri di carico e scarico di materie prime, tutte cose richieste obbligatoriamente per la DOP. Ovviamente l’obiezione è che cent’anni fa non c’erano queste procedure. È ragionevole che barili vecchi 100 anni possano esistere, ma allora sorgono altre domande : quanti ce ne sono? E quanto grandi? Ma soprattutto, quanto, questi contenitori, hanno la capacità di caratterizzare in modo straordinario, tutto il prodotto che ci transita dentro?”
L’immagine tratteggiata da questa indagine è impietosa: nessuna certezza né garanzia, una comunicazione volutamente fumosa e un marketing astuto e basato sul fraintendimento, il tutto votato a mettere sul mercato prodotti a prezzi dalle cinque alle dieci volte superiori delle loro controparti tutelate da marchi e consorzi. Mancano solo i numeri, per capire l’efficacia di queste operazioni: noi, nel frattempo, vi abbiamo dato gli strumenti per una scelta consapevole.