L’inflazione colpisce tutte le persone allo stesso modo? Ma neanche per idea. C’è chi viene colpito di più dal caro prezzi, e chi ci guadagna addirittura. In un precedente articolo abbiamo visto come il caro prezzi non sia uniforme, ma riguardi alcuni beni più di altri, e in particolare il cibo e le bevande, cioè proprio i beni di cui è impossibile fare a meno – e abbiamo provato a spiegarne il perché. Diretta conseguenza di questo dato di fatto è uno squilibrio che si riflette sulle economie domestiche e nazionali: sono i più poveri – famiglie e paesi – a soffrire di più quando i prezzi salgono, a pagare di più il peso dell’inflazione. D’altro canto, c’è chi da una spirale inflattiva ci guadagna: e indovinate un po’, sono i ricchi.
Che da un aumento dei prezzi nel carrello della spesa ci vada a perdere di più proprio chi ha di meno, sembra – ed è – una somma ingiustizia, al limite dell’illogico. Ma è facilmente spiegabile se si considera il fatto che, come spiega anche il sito della Banca d’Italia, le famiglie a basso reddito spendono un’alta percentuale delle loro entrate in beni essenziali come cibo. I componenti di una famiglia a reddito medio alto non è che mangiano di più, certo magari acquistano prodotti alimentari di fascia più alta, più costosi, ma fino a un certo punto; poi però passano ad incrementare altri tipi di spesa (o il risparmio).
Questo vale anche per le nazioni, come rileva un post del Fondo Monetario Internazionale: quelle più povere, i cosiddetti paesi in via di sviluppo, dedicano più di metà dei propri consumi alla spesa alimentare, che in un paese del primo mondo incidono in percentuale molto minore. Per esempio in Etiopia il cibo costituisce il 54% del paniere di beni, il Nigeria il 50,7%, mentre nel Regno Unito solo l’11,6%. Come se non bastasse, famiglie e paesi poveri spendono la maggior parte dei soldi destinati al cibo in alimenti base, di primissima necessità, come pane e cereali: che guarda caso, anche all’interno della sola categoria “cibo” sono quelli che hanno avuto i rincari più spaventosi, come si legge sul sito della FAO.
Inflazione: colpa dei lavoratori…
Ma potrebbe esserci un colpo di scena: vuoi vedere che l’inflazione è causata proprio dai lavoratori, ovvero dalle classi meno abbienti, in particolare proprio dalla manodopera nel settore food? C’è chi ha provato a far passare questo ragionamento: il Guardian riporta l’opinione di Robert Kapito, presidente di Black Rock, una delle più grandi società di risparmio al mondo: “Per la prima volta questa generazione rischia di entrare in un negozio e non poter comprare cioè che vuole. È una generazione che ha molti diritti e garanzie, e non ha mai dovuto fare i sacrifici”. Nel mirino del manager ci sarebbero le cosiddette “grandi dimissioni”, quel trend che durante la pandemia e dopo ha portato milioni di persone a lasciare il proprio lavoro. Ammesso e non concesso che questo sia un fenomeno reale, il percepito è un leitmotiv che anche in Italia conosciamo bene: nessuno vuole fare il cameriere, tutta colpa del reddito di cittadinanza ecc.
Ora, negli Stati Uniti il reddito di cittadinanza non c’è, ma c’è un mercato del lavoro molto flessibile. E per una volta sembra flessibile a vantaggio della parte più debole: se l’offerta di lavoro è inferiore alla domanda, i datori hanno un solo modo per attirare a sé i dipendenti riluttanti. Alzare gli stipendi, e allargare tutti gli altri diritti e garanzie relativi a ferie, straordinari, permessi, orari e così via. Ma gli stipendi sono un costo per le imprese, e un loro aumento causa l’innalzamento dei prezzi finali dei beni che quei lavoratori producono: è la spirale dell’inflazione, un meccanismo ben noto e da disinnescare. Ma come? Jerome Powell, il presidente della Federal Reserve, la banca centrale USA, ha le idee ben chiare: alzando i tassi di interesse. Tra i vari effetti di questa misura di politica monetaria, infatti, c’è quello di favorire il risparmio abbassando gli investimenti delle imprese; questo dovrebbe avere un effetto calmante sulla domanda di lavoro e quindi sui salari che gli imprenditori sono disposti a pagare. Powell lo ha detto chiaramente: “In questo momento abbiamo 1,7 profili aperti per ogni disoccupato: se riportiamo il rapporto vicino all’1 a 1, avremo meno pressione sui salari, e meno carenza di lavoratori”.
A parte la discutibile efficacia della politica monetaria (d’altra parte, le banche centrali quello possono fare, agire sui tassi d’interesse e sulla moneta in circolazione; altri e forse più ampli margini di intervento spettano alla politica, ai governi), c’è da farsi una semplice domanda: sta andando davvero così? I salari stanno veramente crescendo? In realtà i dati dimostrano che, almeno per ora, il potere reale di acquisto delle famiglie è in picchiata, in America come in Europa.
Dall’altro lato dello spettro, abbiamo i compensi per amministratori delegati e alti manager che crescono a una velocità tripla o quadrupla rispetto all’inflazione: ora un CEO guadagna 324 volte un operaio. Discorso populista? Mica tanto: ancora non abbiamo capito come si formano i prezzi, vediamo un po’.
… o degli speculatori?
Come fa notare Forbes – Forbes, non la Gazzetta trotzkista – le società hanno tre possibilità quando aumenta il costo delle materie prime o dei semilavorati: assorbire l’aumento tenendo fermi i prezzi e intaccando i margini (non lo fanno quasi mai); praticare un aumento di prezzo proporzionale così da lasciare i guadagni intatti (soluzione basic); aggiungere un ulteriore ritocco, in pratica fare la cresta sull’inflazione, così da portare a casa un ulteriore introito ma nascondendolo nell’aumento generale. Guarda caso, è proprio quello che varie multinazionali stanno facendo adesso.
Secondo un’analisi del Roosvelt Institute i grandi marchi stanno approfittando di una situazione per cui riescono contemporaneamente ad alzare i prezzi e a non perdere clienti: il 2021 è stato l’anno migliore per i profitti dal 1955. Robyn O’Brien, co-fondatrice di RePlant Capital e autrice di The Unhealthy Truth, ha dichiarato a Forbes che “i dirigenti all’interno di queste società sono legalmente obbligati a soddisfare il rendimento degli azionisti sopra ogni altra cosa”. Quindi la vera spirale dell’inflazione non è prezzi-salari, ma prezzi-profitti: con i margini erosi alle famiglie povere che vengono distribuiti agli investitori ricchi. Concludono sempre quei comunistoni di Forbes: è letteralmente Robin Hood al contrario – e noi non possiamo che concordare.