“Benché questo libro non voglia essere una storia erudita, si basa su storie erudite”. E’ l’incipit dell’ultimo paragrafo di “In principio era la tavola” (titolo originale: The table comes first) di Adam Gopnik uscito per i tipi di Guanda nel lontano 2012 e tradotto da Bruno Amato.
Non proprio un best seller, e nemmeno uno di quei libri imprescindibili nella greatest hits della biblioteca foodie, che comincia (e spesso anche finisce, onore al merito) con il fededegno quanto prolifico Michael Pollan.
Adam Gopnick non è un critico gastronomico, ma un editorialista del New Yorker, e in Italia, prima di questo libro era stato tradotto Paris to the moon, “Da Parigi alla luna” diario del suo quinquennio parigino come inviato del New Yorker assieme alla moglie, e al figlio nascituro (e poi nato sotto la direzione dell’ostetricia francese).
La sua reverenza alla Francia, e quella sua perfetta sineddoche che è la Parigi prima del 2000, è così sincera come solo quella di un americano può essere. Adam Gopnick però, come quasi tutti i newyorkesi non è nemmeno newyorkese, ma viene dal Canada come la moglie Martha, onnipresente nelle sue narrazioni e con cui si è trasferito nella Grande Mela poco dopo la laurea, abitando in uno scantinato di nove metri quadrati per diversi anni prima di sfondare e potersi permettere un grande loft abitato da topi e da artisti nel Village durante gli anni Ottanta. La sua vita a New York la racconta in altri due libri, uno precedente e uno successivo a questo: “Una casa a New York” e “io, lei e Manhattan”.
Adam Gopnik è anche uno dei miei scrittori preferiti.
Far cultura del cibo
Ma torniamo all’incipit di cui sopra: con questo libro si vuole far cultura del cibo non tanto interrogandosi sui dilemmi, e sulle nostre, più o meno dannose, abitudini alimentari; la cultura del cibo qui è intesa nel rendere omaggio alle questioni filosofiche che si celano dietro all’apertura di un ristorante, alla stesura di un libro di ricette, finanche alla scelta del vegetarianesimo e del localismo, senza apriorismi ma con lucido metodo scientifico. Come quando, per affrontare il tema del localismo, Gopnick costringe se stesso e la sua famiglia per una settimana a mangiare solo alimenti coltivati e prodotti all’interno dell’area cittadina di New York riuscendo a procurarsi nientemeno che miele “di tetto”, pollo “che sa troppo di piccione”, tilapia in acquacoltura del Brooklin College, e certe erbette commestibili di Central Park. E mentre si assapora il suo pellegrinaggio, reso saporito dalla sua per nulla celata goffaggine, si leggono sentenze brillanti, lasciate cadere nel testo in punti poco strategici: “il localismo è una politica che tenta di creare un gusto“. Con buona pace di Slow Food.
La cifra della sua narrazione è quasi sempre ammantata della goffaggine che doveva essergli propria quando era un giovane studente fuorisede, e che, a quanto pare, ha saputo salvaguardare alla grande anche per i tempi migliori. L’erudizione che sta dietro alla sua scrittura è ben ricoperta di “comun-mortalismo”, tanto che può risultare trascurabile a chi la vuol trascurare.
Il potere morbido
E invece, per chi non vuole, in quasi ogni capitolo è urlata la sua volontà, non proprio modesta, di procedere a una riscrittura: passatempo preferito di ogni scrittore statunitense cui tocca vivere la postmodernità. La riscrittura è ovviamente quella DEL libro di gastronomia, la “fisiologia del gusto” dell’illustre Jean Anthelme Brillat-Savarin, uno di quei libri che tutti fingono di aver letto mentre ne cercano gli aforismi su Google, “dimmi ciò che mangi, e ti dirò chi sei”, per intenderci. La fisiologia del gusto è da Gopnick citato abbondantemente, ma non solo, il libro viene eviscerato e descritto, finalmente, non solo come il primo saggio di enogastronomia ma anche come il testo inventore della “scena” gastronomica che ha permesso la nascita del ristorante e che ha creato quel modo di fare “foodwriting” che dà il pane a molti di noi.
Ciò che Gopnick ammira del suo mentore è come abbia reso penna e forchetta strumenti di un potere “morbido” che si contrapponeva alle armi del periodo post rivoluzionario, portando alla luce come “i bisogni diventino esigenze e desideri” che a loro volta diventano un’idea politica “grazie al potere civilizzatore della tavola”.
Lo studio del potere morbido, di come il piacere possa influire sul benessere collettivo, è anche la finalità della ricerca di Gopnick: da quando si interroga sui grandi dilemmi dell’alimentazione a quando cucina il soufflè di albicocche secondo la ricetta di sua madre. Non è un caso se, come Jean-Anthelme, anche Gopnick è un “prestato” all’enogastronomia.
Elisabeth Pennel e il foodblogging
Il libro è organizzato in quattro parti, la prima, propedeutica come un antipasto, si prefigge di dare risposta a domande semplici semplici come “quando è nato il ristorante” e “a cosa serve un libro di ricette”, e nel farlo sciorina definizioni così candidamente succulente che non posso esimermi dal riportare: “il ristorante è un posto dove si va a mangiare. […] Il posto non è un bordello né nulla di simile, ma spesso porti qualcuno con te perché dopo ti piacerebbe farci sesso, a volte lo fai, però vai a farlo da un’altra parte”.
Segue una parte dedicata alle scelte più o meno etiche, una terza sul conversare che ovviamente affronta il tema alcol, e una quarta parte in cui si parla della decadenza gastronomica di Parigi (con tanta riconoscenza alla bistronomia e agli inventori di Le Fooding) e in cui si parla di zucchero, El Bulli e Celler de Can Roca solo per riaffermare definitivamente l’inutilità fisiologica del mangiar buono, e la sua incredibile capacità di “fermare la vita” e “far insorgere il buonumore”.
Tra un capitolo e l’altro, c’è anche lo spazio per il femminismo: Gopnik scrive una serie di email a Elisabeth Pennel, “intelettualoide”, femminista, inglese, ottocentesca e autrice di uno dei primi – almeno a detta di Gopnik – libri di ricette in cui si condividono le storie e i sentimenti del cuoco, oltre agli ingredienti. A lei Gopnick indirizza le sue ricette famigliari e i ricordi collegati, in questo modo, in questo libro, c’è spazio anche per il foodblogging, e per appuntarsi i segreti del cosciotto di agnello al forno.
I libri di cucina più apprezzati sono, da sempre, quelli che ci parlino di qualcosa d’altro, incidentalmente, e sempre più spesso, di come salvare il mondo. È – e non è una novità – una lezione che il giornalismo enogastronomico dovrebbe considerare, per evitare quella noiosissima ma a volte fondata accusa di pressapochismo. Ma di questi tempi di un futuribile iperpositivo #andràtuttobene occorre essere ottimisti anche sul futuro della critica “Più invecchiamo, più lavoriamo sodo su ogni cosa, anche sui nostri piaceri”. Ed è un augurio che faccio a tutti noi.