Per un italiano mediamente sfortunato, il primo approccio con il tè avviene con una tazza di tè nero forte da scaffale. La tazza nello specifico contiene un liquido a sette milioni di gradi, una galleggiante bustina di qualche cosa e una mezza fettina di limone. Per molti quella cosa lì non solo era tè, ma è rimasta tè anche negli anni. Oltre questo primo assaggio, disponibile al bancone o al tavolo di un qualsiasi bar di medio (ma talvolta anche alto) livello, non c’è stato altro. Per questo oggi siamo qui a far chiarezza.
Classificazione e varietà
Partendo dai fondamentali: il tè nero non è veramente il tè nero. La classificazione europea dei colori dei tè è infatti un’interpretazione commerciale di quella cinese dove quello che per noi è il tè nero sarebbe in realtà il tè rosso (che non c’entra nulla con il rooibos, che tè non è). Con tè nero si indicano tra le diverse tipologie di tè, seguendo la categorizzazione più recente e più precisa in nostro possesso redatta dal Professor Chuan Chen, i tè neri fermentati, anche detti dark teas (tè scuri) e spesso identificati con i tè pu’er. Nonostante sia dunque scorretto parlare di tè neri invece che di tè rossi, di seguito assumeremo la dicitura comune in Europa e in Italia, per agevolare il lettore.
Torniamo dunque alla questione del tè in tazza. Abbiamo detto che la maggior parte dei tè in bustina da scaffale è rappresentata dai tè neri. Questo assunto ha ragioni storiche anche se non deve far dedurre in automatico che tutti i tè neri siano di scarsa qualità. A produrre il tè nero da scaffale ci ha pensato per anni l’India, dove la varietà assamica della camelia sinensis cresce allo stato selvatico da migliaia di anni. In epoca coloniale queste piante che erano sempre state lì a produrre infusi, furono impiegate per la lavorazione del tè, fino a raggiungere un’industria e un volume di affari che nel mondo è secondo solo alla Cina. La cosa più interessante è che l’India si è specializzata negli anni nella produzione di tè neri da colazione, ma anche in tè neri di alto profilo, come i tè neri Assam e Darjeeling. Il tè nero comunque viene prodotto anche in altre zone, come Cina, Kenya e Sri Lanka.
Lavorazione
Come abbiamo sottolineato in più occasioni, la differenza tra un tè e l’altro va individuata nei processi di lavorazione. I tè neri si distinguono dagli altri, in particolare dai bianchi che sono poco lavorati, per richiedere tutti i processi di lavorazione e avere un’ossidazione massima (fino a che la foglia non diventa rossa, da qui il nome), che imprime il sapore ben noto ai palati dei consumatori occidentali. È stato questo sapore a suggerire agli inglesi di arricchire il tè nero con latte, limone e zucchero. Pratiche che, seppur in voga, sconsigliamo fortemente a chiunque beva tè di alta qualità. I processi di lavorazione comprendono raccolta, appassimento, arrotolamento o taglio della foglia, ossidazione, essiccazione e infine, selezione. Il processo di ossidazione è tutt’altro che semplice e richiede una gestione oculata del tempo e delle foglie. “Un’ossidazione disomogenea crea sapore e qualità disomogenei” scrive Joseph Wesley Uhl.
Abbinamenti
In virtù dell’alto grado di ossidazione, i tè neri sono perfetti per essere abbinati a un pasto completo, che sia pranzo o cena. Per quanto non rientri nelle nostre abitudini, i tè neri sono ideali con carni, insaccati, formaggi, dolci, marmellate o anche cibi speziati. Visto il loro gusto deciso, vengono bevuti a colazione o prima di colazione. Nell’abitudine dell’afternoon tea inglese inoltre, il tè pomeridiano è sempre un tè nero. In buona sostanza: un tè molto adatto per pasteggiare, da bere sempre tranne di sera. Queste tuttavia non sono che indicazioni di base, perché i tè neri sono un mondo che può colorarsi di note e sentori molto diversi, che spaziano dal tabacco, ai fiori e frutti.