Pasta e pane: i prezzi sono davvero destinati a salire in maniera drammatica? E quanto le variazioni dovute a avvenimenti tragici ed eccezionali (guerre, carestie) possono ripercuotersi sui prezzi dei prodotti che dal grano derivano?
Da quando è iniziata la guerra della Russia contro l’Ucraina – fine febbraio ’22 – è tornato lo spettro dell’inflazione, che già si era riaffacciato negli ultimi mesi con la crisi della supply chain. Stiamo vedendo i prezzi schizzare alle stelle, ma gli aumenti non sono distribuiti uniformemente, alcuni beni sono più colpiti di altri, perché vengono dalle zone direttamente coinvolte nel conflitto. Su tutti i combustibili fossili, petrolio e gas, e infatti si è visto subito con i prezzi esorbitanti di benzina e diesel, e presto si vedrà con le bollette. Un’altra cosa che viene in quantità abbondanti dalle pianure di Russia e Ucraina, non a caso dette i granai d’Europa, è il frumento.
Nelle ultime settimane quasi quotidianamente sono rimbalzate notizie allarmistiche sul prezzo del grano che aumentava, impazziva, raddoppiava. Di conseguenza sono aumentate le preoccupazioni, soprattutto per noi italiani: tutto questo prima o poi avrà conseguenze su tutto ciò che si fa con la farina, in particolare sulla nostra amata pasta. Contemporaneamente, non sono mancate le osservazioni che, con un po’ di malizia, facevano notare un’apparente contraddizione: ma i marchi di pasta di qualità non si facevano un vanto di produrre con “100% grano italiano”? Allora delle due l’una: o non dovrebbero lamentarsi adesso, lasciando i prezzi invariati, oppure non la raccontavano giusta prima.
Tutto questo porta allora a domandarci: come funziona il mercato del grano? La risposta non è semplice: vediamo di capirci qualcosa anche perché questi sono meccanismi validi al di là delle contingenze e degli avvenimenti particolari.
La differenza tra grano tenero e grano duro
Dobbiamo partire facendo una distinzione fondamentale: tra grano tenero e grano duro. Queste due specie di frumento non sono solo molto diverse tra loro dal punto di vista genetico, biologico e sensoriale. Di conseguenza, infatti, hanno usi e produzioni diverse, sono due mercati completamente differenti.
Innanzitutto per quantità: di tenero se ne producono 750 milioni di tonnellate all’anno, di duro 30 milioni. Insomma la produzione di frumento tenero è 25 (venticinque) volte quella di duro.
Poi l’uso: il grano duro serve sostanzialmente per fare la pasta, il grano tenero pane pizza e tutto il resto, dalle merendine ai taralli, dai biscotti alla sfoglia. È una distinzione abbastanza netta, non si fa per dire: addirittura in Italia produrre la pasta di grano tenero è vietato dalla legge, salvo alcuni casi residuali ed eccezionali sostanzialmente destinati all’esportazione. Viceversa, il grano duro viene usato ogni tanto anche per il pane e altri prodotti da forno ma, anche se non c’è nessun divieto normativo, sono usi marginali.
Questo quindi porta a trarre una prima conclusione: quando si alza il prezzo del grano tenero, come sta succedendo in queste settimane, il prezzo della pasta non viene minimamente toccato, non c’entra nulla. Come si vede dal grafico le quotazioni del frumento tenero sono schizzate in alto a partire da metà febbraio, arrivando anche a sfondare il tetto dei 400 dollari a tonnellata. Invece il prezzo del grano duro è sostanzialmente invariato o comunque soggetto a fluttuazioni indipendenti. Perché allora i pastifici ventilano aumenti di prezzo al consumatore? Ci arriviamo tra un attimo.
Italia, importatore e produttore di grano
L’Italia è un grande consumatore di prodotti da forno, e soprattutto è un grande produttore ed esportatore di pasta. Per fare tutta questa pasta, destinata anche ai mercati esteri (ma pure per fare tutte ste pizze) il grano che produciamo non basta: dobbiamo importarlo. Questo oramai lo sanno tutti, è un mantra che andiamo ripetendo fino alla noia: non siamo autosufficienti, il grano italiano non è sufficiente… Solo con la variante sulle conclusioni: chi dice “…e quindi dobbiamo produrne di più” e chi invece “e quindi dobbiamo rassegnarci a importarlo senza fare tanta retorica sul prodotto autoctono”. Vediamo però un attimo i dati.
Grano tenero: secondo i dati Italmopa (Associazione Industriali Mugnai d’Italia) i più grandi produttori mondiali sono Russia (75 Mt in media), Stati Uniti (50 Mt), Francia (36), Canada (30 Mt), Ucraina (27 Mt), Australia (25), Germania (22). Casi a parte sono Cina e India, che producono più di 100 Mt ciascuna ma con il loro miliardo, miliardo e mezzo di abitanti, assorbono tutta la produzione sul mercato interno. E l’Italia? La produzione di grano tenero italiano è di circa 3,0 Mt rispetto ad un fabbisogno di circa 5,5 Mt.
È vero quindi che siamo costretti a importare, però non è che di grano non ne abbiamo affatto: c’è chi è messo peggio di noi, i paesi del Nordafrica e del Medioriente per esempio, che per ragioni climatiche ne fanno ben poco ma per ragioni culturali ne consumano assai; e infatti sono i primi colpiti da queste crisi, con conseguenze anche drammatiche. Altro piccolo debunking quindi: un po’ di grano tenero ce l’abbiamo, se il vostro panettiere o pizzaiolo vi dice che fa i suoi prodotti con grano italiano, non vi sta per forza prendendo in giro.
Grano duro: altro discorso, ma solo in parte. I produttori principali sono Canada (5,0 Mt), Italia (3,9 Mt), Turchia (3,1 Mt), Algeria (3,0 Mt), Stati Uniti (1,5 Mt), Marocco (1,5 Mt), Francia (1,4 Mt) e Messico (1,4 Mt). Quindi anche qui, soprattuto qui, ne produciamo un bel po’: ma meno di quello che ci serve, ovvero 5,8 milioni di tonnellate. Ci servono per fare 3,9 milioni di tonnellate di pasta prodotte dai nostri pastifici: questi numeri porta l’Italia sul tetto del mondo; il 62% della produzione è esportata in Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Francia e Giappone, fra gli altri.
Parentesi, ma non irrilevante: negli ultimi 50 anni, ovvero da quando è entrata in vigore la normativa europea di gestione delle produzioni agricole, l’Italia è stata disincentivata a coltivare grano tenero e incentivata a coltivare il duro. Questo ha portato la produzione di tenero a scendere costantemente dai 7,7 milioni di tonnellate degli anni sessanta, e quella di duro a salire fino a oltre 5,5 Mt negli anni zero. Solo nel 2006, quando sono parzialmente cambiate le regole, le tendenze si sono un po’ invertite.
La guerra non mette a rischio la pasta italiana, come recita un recente comunicato di Unionfood. Per tutto quanto appena visto: poco grano duro viene dall’Ucraina e dalla Russia, molto grano viene coltivato in Italia. Però un piccolo ritocco ai prezzi, nella misura del 10% si stima, è comunque prevedibile che arriverà. E questo per il suddetto aumento dei costi dell’energia, che la guerra ha esacerbato ma che si erano già prodotti a fine 2021: in prima battuta per i pastifici, che effettuano con macchinari industriali l’essiccazione a caldo della pasta.
In seconda battuta poi, i costi maggiorati di elettricità e gas si ripercuoteranno su tutti gli attori della filiera: a partire dai contadini passando per i molini, per finire con i trasportatori che movimentano le merci qua e là per il mondo. E non c’è solo l’energia: per esempio la Russia è un grande produttore ed esportatore di fertilizzanti, quindi si prevedono dei costi aggiuntivi per i coltivatori convenzionali. Però tutti questi effetti si vedranno a partire dalla prossima stagione.
Ma come si determina il prezzo del grano? Quali sono tutti i fattori, contingenti o fissi, che influiscono sui costi nei vari punti della filiera? E soprattutto cosa si intende per mercato globale, contrattazione in borsa, futures? Ne parleremo in un articolo successivo.