“Oggi in Italia il 70% degli acquisti alimentari viene compiuto in un esercizio della Grande Distribuzione Organizzata” hanno scritto Stefano Liberti e Fabio Ciconte nel libro “Il Grande Carello”, uscito per la prima volta nel 2019 e poi riedito da Laterza nel giugno del 2021, appena dopo che i supermercati avevano confermato il loro indiscusso potere sulla filiera alimentare italiana (ma mica solo quella). Nel 2020 infatti, in pieno lockdown, l’allora ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova individuava nella GDO un interlocutore affidabile, destinato a farsi carico della “filiera della vita”, come negli appelli pubblici rivolti “all’interesse dei cittadini che devono sapere che non troveranno gli scaffali vuoti”.
Il supermercato è comodo, è vicino, è sicuro, è pulito, è veloce (volendo) e poi ci sono le offerte. Cosa volere di più? Niente a quanto pare, come dimostra il 70% degli italiani che si affida alla GDO per i propri acquisti alimentari. Eppure, non è tutto oro quello che luccica, e se si pensa a una questione da radical chic, da comunisti anti-clericali, allora serve questo libro per uno sguardo più approfondito. Sono 119 pagine che si bevono in poche ore (per me neanche l’intero spazio di un treno Roma-Torino) e descrivono le abitudini alimentari della stragrande maggioranza degli italiani e gli interessi economici, le dinamiche perverse ma apparentemente così “normali” che si intrufolano nelle nostre vite mentre facciamo scivolare i carrelli lungo le corsie illuminate tra un barattolo di pomodoro, un flacone di detersivo e una pizza surgelata.
Dalla nascita del primo supermercato fino alle private label, i costi delle passate di pomodoro, le buste d’insalata già pronte, la nascita e l’evoluzione dei discount, il mondo della GDO è un mondo estremamente complesso e affascinante, che però può contenere, fra le tante riportate nel libro con grande lucidità, almeno due complicazioni:
La libera scelta
La prima, che riassumo nel concetto di “libera scelta” è una possibilità di scegliere sconfinata, quasi infinita che da vicino potrebbe sembrare più apparente che real. Il marketing della GDO è forse uno dei marketing più evoluti che esista sul mercato, un modello che va studiato nella sua complessità per comprendere una logica commerciale ma anche comportamentale che ci fa spesso sentire liberi di scegliere il meglio, più velocemente, al miglior costo, ma che nel profondo ci porta esattamente dove non avevamo pensato di andare.
I clienti della GDO sono tanti sì, ma non tutti uguali. Vengono profilati secondo molteplici sistemi (come le carte fedeltà ad esempio) e divisi in categorie proprio come i prodotti che si trovano nelle corsie. Scrivono Liberti e Ciconte che “il supermercato conosce i suoi clienti, con tutte le loro debolezze, i loro desideri, le loro nevrosi e paure”. E li organizza così: clienti cacciatori, brand fan, esperti, prudenti, pragmatici. Ognuno con le sue esigenze, le sue abitudini d’acquisto, le sue preferenze, e le sue modalità d’ingaggio preferite. A differenza di tanti altri settori del marketing (noi ridiamo per i cookies, ma in confronto nei supermercati siamo anni luce avanti) la GDO ha attuato da tempo una profilazione attentissima e la utilizza per dialogare con coscienza con i suoi clienti, che entrano per comprare un litro di latte ed escono con un pacchetto di frutta secca, una piadina pronta, una busta del pane, la carta igienica e un ovetto di cioccolato.
Il prezzo
La seconda dinamica più rilevante della GDO è il prezzo. Sul prezzo sono basate moltissime strategie in cui è avviluppato chi si muove tra gli scaffali ma non solo. Anche chi si giostra tra varie insegne, tra diversi marchi e tipologie di supermercati, tra offerte, sconti, 3×2, sottocosto e così via. Il prezzo però è una delle leve principali per arrivare ai consumatori, attrarli, conquistarli. Molte delle pubblicità, dei volantini, dei messaggi, dei concetti che la GDO esprime sono legati alla convenienza e grazie ad essa si rendono efficaci per un pubblico estremamente ampio e trasversale.
Ci tengo ad aggiungere, che visti numeri del fenomeno (il 70% degli italiani lo ripeto) il reddito e il benessere economico c’entrano molto relativamente con il supermercato. Andarci non vuol dire essere poveri, vuol dire essere parte di una stragrande maggioranza. Molti di quelli che acquistano al supermercato potrebbero acquistare anche altrove, ma trovano in questi luoghi dei vantaggi che non riescono a trovare altrove. E ritorniamo al punto 1.
Dicevamo dei prezzi. Anche questi non sono casuali, ma ben ponderati su una lunga serie di varianti e frutto del risultato di una catena di passaggi spesso lunghissima tra produttore e scaffale. Ciconte e Liberti parlano ad esempio della listing fee, “una somma da versare per ogni prodotto messo sullo scaffale” che alcuni grandi marchi non pagano “perché un supermercato che non ha la Coca-Cola o la pasta Barilla rischia di perdere clienti”. In poche parole, i produttori pagano per stare in bella vista sullo scaffale, e talvolta si assumono l’onere dei costi delle offerte, dei sottocosto e di tante altre dinamiche di vantaggio. Insomma quei prezzi non sono solo prezzi (ok, non lo sono quasi mai) ma il risultato di una serie di rapporti più o meno sbilanciati verso la GDO dove i piccoli produttori non riescono a competere, mentre i grandi hanno piccoli margini di trattativa perché necessitano di questi canali per vendere.
Ora quei prezzi in alcuni casi (specialmente nel caso del fresco, che sta sempre all’inizio per una ragione, spiegata anche quella) sono davvero “lacrime e sangue”. È assolutamente ingiusto scaricare la responsabilità dell’acquisto solo sui consumatori, chiedendo loro un’etica e una deontologia della spesa. Men che mai sui lavoratori. Tuttavia è inquietante che dal 1957, anno del primo grande magazzino gastronomico italiano, andare al supermercato è diventato sinonimo di fare la spesa, comprare cibo. E a vedere il meccanismo da vicino, chissà se forse qualcuno non vorrà smettere.