È successo di nuovo: una nota trasmissione televisiva di inchieste giornalistiche si butta su un tema di alimentazione caro agli italiani, e scoperchia il proverbiale vaso di Pandora. Così come fu per la cucina gourmet, per la pizza, il caffè, ora al menù dei supposti scandali non poteva mancare il dessert tricolore più diffuso del mondo, il gelato. Parliamo della puntata di Mi Manda Rai Tre andata in onda il 30 novembre, in cui il presentatore Federico Ruffo esordisce con dichiarazioni alquanto preoccupanti: a causa di un buco normativo, la dicitura “gelato artigianale” non sembra avere alcun senso.
Fintanto che le vaschette sono prodotte nello stesso posto in cui sono vendute, quella gelateria può fregiarsi del titolo di artigianale, e che sia prodotto con ingredienti naturali o con preparati industriali poco importa.
Tutto nella legalità
Esattamente come sottolinea il conduttore della trasmissione, anche noi dobbiamo sottolineare la cosa: piaccia o meno, chi produce i propri gelati limitandosi ad aggiungere acqua a dei preparati invece che partendo dagli ingredienti freschi e selezionati che tutti immagineremmo (e gradiremmo), lo fa assolutamente all’interno della legge, e fa il mestiere che gli è stato probabilmente insegnato nei corsi di formazione che le aziende produttrici di semilavorati hanno approntato, applicando alla perfezione il concetto di marketing del “nurturing”, fidelizzando i clienti offrendo contenuti di valore, in questo caso un corso professionale.
Perché al netto degli spauracchi su polveri, conservanti, coloranti e gli ipotetici effetti dannosi sulla salute, sui quali ci asteniamo dal commentare, il punto focale della questione è proprio la mancanza di una legge specifica, e ormai siamo in ritardo imperdonabile. Curiosamente, è stato anche uno dei temi centrali della nostra classifica dei panettoni: ormai il prodotto “panettone artigianale” è diffusissimo, eppure non esiste nessun paletto legislativo che impedisca a chicchessia di attrezzarsi una volta all’anno con semilavorati e pirottini e uscirsene con un prodotto da 50€ al kilo, magari con una shelf-life di un anno favorita con qualche aiutino, in barba a lievitisti che hanno fatto della cura del lievito madre una missione monastica che conducono ininterrottamente per dodici mesi. Per chiarezza nei confronti dei consumatori che leggono la nostra selezione, questi paletti li abbiamo messi noi, in attesa che chi di dovere faccia altrettanto.
Tutelare la vera artigianalità
Strano che per un prodotto molto più diffuso, e paradossalmente anche molto più destagionalizzato come il gelato, ci si ponga il problema solo ora, eppure il concetto di artigianale in questo settore è già stato abbondantemente sdoganato, acquisendo anche una sua estetica riconoscibile anche al consumatore occasionale. Niente più montagne di gelato multicolore quindi, in favore di tonalità più naturali (vedi l’esempio dell’onnipresente pistacchio, per cui il marrone è ormai preferito allo storico verde brillante), e carapine a proteggere il delicato equilibrio di acqua, aria, grassi e zuccheri di un prodotto appena uscito dalla mantecatrice.
Forse quello che manca è l’azione di un’associazione di categoria sufficientemente forte da portare avanti la battaglia. Nel servizio di Daniele Grisafi, i numeri sono impietosi: se da domani il titolo di artigianale fosse attribuito solo alle gelaterie che non usano preparati, solo un misero 5% potrebbero fregiarsene, e all’associazione promossa da Roberto Lobrano, noto formatore del settore che ha pensato a un disciplinare scevro da additivi, hanno aderito appena trenta gelaterie su 39mila, una situazione che non fa presagire un cambio dello status quo in tempi brevi. E dire che unire le forze può funzionare, come è stato nel 2016 per la birra artigianale, che dopo anni di insistenze è riuscita a ottenere una sua definizione quantitativa e qualitativa. Certo, c’è una bella differenza tra centinaia di attività, come quelle dei birrifici, unite contro il fronte industriale, e migliaia di gelaterie che non hanno nessun interesse a rischiare di privarsi del titolo di artigianale, per quanto poco sensato.