Dai bastioni del Castello di Roddi si fanno i conti con il futuro del tartufo, un po’ come si tirano le somme di fine anno, che nel caso del Tuber Magnatum Pico, volgarmente detto Tartufo Bianco d’Alba, coincide con la chiusura della stagione di raccolta.
Futuro, sì: una parola assolutamente impegnativa che, anche e soprattutto nel caso del tartufo, fungo ipogeo dei record che assieme al Nebbiolo e alla nocciola (tonda e gentile, beninteso) è simbolo del gusto nelle dolci colline della Langa, deve necessariamente confrontarsi con la sfida ambientale e la tutela intelligente, tanto del prodotto quanto della reputazione.
Questi gli argomenti affrontati nella giornata di martedì 30 gennaio al Castello di Roddi, sulla porta delle Langhe, in un incontro dedicato al finale di stagione di cerca del Tartufo Bianco d’Alba. Diversi gli spunti di interesse, seppur tutti retti da una chiara pietra angolare: la necessità di declinare in un risultato utile lungimiranza e movimentazione.
Colline dolci, ma sempre più aride
Parliamo di clima, dunque. L’impalcatura contestuale è quella che, se già non conoscete, dovreste comunque avere ampiamente intuito; ma per favore di chi ha passato gli ultimi anni con la testa sotto un masso (o con le proverbiali fette di prosciutto sugli occhi) faremo un piccolo riassunto.
Il tartufo, lo abbiamo accennato poc’anzi, è un fungo ipogeo, e cresce cioè sottoterra, più precisamente vicino alle radici degli alberi. Vien da sé che necessita di una sana dose di umidità, merce dolorosamente rara in una zona dove, dati (e allarmi) alla mano, si patisce sempre più il cappio della siccità: basti pensare che solamente lo scorso marzo, al culmine di un biennio segnato da nevicate dimezzate (-53% rispetto alla media, dicono i dati di febbraio dello scorso anno), un Po mutilato fino all’80% della sua portata e danni all’agricoltura per 1,2 miliardi di euro (dati, questi ultimi, addirittura risalenti a luglio 2022), diversi Comuni raggiunsero il “massimo livello di severità idrica“.
Più che eloquenti, in questo caso, le parole di Antonio Degiacomi, presidente del Centro Nazionale Studi Tartufo; che racconta di come negli ultimi tempi le domande dei giornalisti siano virate dalle dimensioni e dai prezzi per assumere un carattere quasi esistenziale: “Ci saranno ancora i tartufi, tra vent’anni?“. Degiacomi si prende il lusso di rispondere con un’altra domanda: “In Piemonte e in Italia ci siamo mossi con la velocità necessaria ad affrontare i cambiamenti economici, sociali e climatici? La risposta è molto semplice: no“.
Niente piante, niente tartufo: il problema del disboscamento..
Ora, però, è tempo di muoversi: “Ora c’è la necessità di passare dalle azioni esemplari, che avranno pur sempre un gran valore di spinta, alle azioni di sistema” spiega Degiacomi. “Che sono normative, economiche, di ricerca scientifica e di valorizzazione delle diverse specie di tartufo“.
L’intervento del Vice Presidente Regionale, Fabio Carosso, si apre nel segno di quanto visto finora, con l’annuncio che l’avvio della prossima stagione del Tartufo Bianco d’Alba sarà posticipata di una settimana, al primo di ottobre; e allargandosi a toccare il problema del disboscamento, nemico naturale della tartufaia, e della tutela del prodotto tipico. Il primo dovrebbe (e potrebbe) essere tamponato da un brando – “Che aprirà a giorni”, rassicura Carosso – che metterà a disposizione dei proprietari dei terreni (quindi non necessariamente un agricoltore, è bene notarlo) risorse economiche che dovrebbero pagare “il terreno, la rimessa in mora e la mancata produzione del terreno“, arrivando “fino a ventimila euro a ettaro per dieci anni“.
.. E quello della tutela
“Siamo una bella azienda, che ha tanti clienti, ma che non ha sufficiente prodotto“: è la metafora di Carosso. I nostri lettori più attenti, o forse più informati sulle vicende di Langa, potrebbero già avere intuito dove stiamo per andare a parare. Il Vice Presidente lancia in primis la palla nella metà campo dei ristoratori e dei commercianti: “Loro devono essere i primi a mostrare serietà“.
Serietà come parola d’ordine, anche e soprattutto nell’approvvigionamento del tartufo. Considerando dove ci troviamo il paragone con il mondo del vino è più obbligato che scontato: “Qualcuno si è dimenticato che qualche anno fa in questi territori si imbottigliava del vino che poi faceva morire le persone” continua Carosso. “Si è capito che c’era un problema e poi siamo diventati grandi: dopo trent’anni siamo diventati maggiorenni. Ecco, dobbiamo fare lo stesso con il tartufo“.
Poi la stoccata più dura: “È inaccettabile che, per esempio, arrivi una persona con cento chili di tartufo dentro al furgone: è una cosa che fa schifo”. La chiave per interpretarla ve l’abbiamo data qualche riga fa, con la storia dei clienti e del prodotto insufficiente; con chiaro riferimento a chi, attingendo a piene mani da “fonti esterne”, presenta scaffali traboccanti di tartufo anche in tempi di magra.
Anche in questo caso ci pare interessante tracciare un parallelo tematico con quanto sta accadendo con il settore vitivinicolo locale, attualmente in tumulto per le modifiche proposte dal Consorzio di Tutela di Barolo e Barbaresco – proposte saldamente impiantate in un ideale di buon senso e atte anche e soprattutto a garantire una forma di tutela verso le frange più sfacciatamente low cost del re e della regina dei vini piemontesi. Nel vino come nel tartufo, in altre parole, pare che il futuro debba obbligatoriamente passare per una riconfigurazione degli attuali connotati. Nella Langhe tira aria di cambiamento, che poi è anche aria di sfida: ci sarà però la serietà necessaria a coglierla?