Saremmo in grado di lavorare in un panificio? Un panificio di oggi dico: moderno, organizzato, lontano dai racconti di canotte sudate per poche lire al chilo. Insomma, fare il pane per lavoro, al di là del fascino impartito dalla tv e del nostro piccolo vasetto di lievito madre addomesticato.
Perché ho l’impressione che showcooking e programmi televisivi abbiano trasmesso a noi tutti una piccolissima parte di quel mondo, spesso limitata alla centralità dei personaggi o alla figura stessa di panettieri (pardon, panificatori) e pizzaioli, ma mai ampliata al mestiere del pane e alla composita arte bianca.
Un’arte va distinta ben bene in sfera amatoriale e professionale: qui su Dissapore siamo bravissimi a darvi linee guida e ricette per la preparazione dei vostri pani e di pizze in teglia gourmettare, ma badate bene che il lavoro è un’altra cosa.
C’è un’enorme differenza tra realizzare una singola pagnotta e doverne progettare qualche centinaio; cambiano i metodi, le ricette, i tempi e l’intero processo deve necessariamente essere standardizzato perché tutto il pane esca dal forno il più possibile uniforme. Ma soprattutto si tratta di un lavoro fisico, dai ritmi sostenuti e dagli orari non proprio leggeri, al netto della tecnologia che semplifica la vita.
Per raccontarvi l’altro volto della panificazione sono stato due giorni da Davide Longoni, panificatore noto se ce n’è uno non c’è maestro di una giovane generazione di professionisti: ecco com’è (lavorare in) un panificio moderno.
Il laboratorio
Il regno del maestro, dove ogni pane viene pensato, testato e infine creato. Nella maggior parte dei casi il laboratorio di un panificio si trova dietro (o comunque nell’immediata prossimità) del negozio stesso. Nei casi di espansione tuttavia è decisamente più conveniente avere uno spazio centrale adibito alla produzione e locali dislocati, adibiti al solo commercio.
Tale soluzione ha l’evidente vantaggio di poter ottimizzare i costi di investimento e regolarizzare la produzione, per poi dividere la fornitura in base a quanto i negozi stanno effettivamente vendendo. Nel caso di Davide Longoni parliamo di un capannone a dir poco enorme, adibito a diverse funzioni; appena entrati un ufficio, gli spogliatoi e la lavanderia, poco più avanti i due grandi forni elettrici a vapore per la cottura dei panificati, gli scaffali per il raffreddamento dei prodotti in attesa della consegna.
Basta percorrere pochi passi per ritrovarsi davanti a uno spazio immenso: i pallet con le centinaia di chili di farina, i banconi in acciaio per il lavoro, la cella frigorifera (che è più una stanza a dire il vero) per le materie prime, le ulteriori tre celle adibite alla fermentazione del lievito madre, alla puntata in massa e all’appretto delle forme.
In fondo dominano la scena le tante impastatrici dedicate alla lavorazione dei panificati, ben 6 tra spirali e braccia tuffanti, di piccola o grande dimensione. Dietro le celle si accede allo spazio lavanderia, e tramite una porta all’ulteriore locale dedicato alla pasticceria, diviso in due zone: l’angolo cottura (con forni a convenzione e il rotativo utile per la cottura dei grandi lievitati) e la parte riservata alle operazioni manuali per la preparazione dei dolci, con banco, strumentazione e quant’altro.
L’organizzazione
Un panificio moderno fa (e deve fare) dell’organizzazione il suo primo vero mantra. Vi basti pensare che, mentre una pizzeria canonica lavora generalmente con due, massimo tre impasti differenti, un panificio ne gestisce qualche decina. Se poi in un impeto di follia si decide di mettere in linea anche pasticceria, pizze e focacce da banco, beh la faccenda si complica ulteriormente.
È ovvio che tutte le varietà proposte devono rientrare in una logica di business sensata e corrispondere ad un determinato margine. Banalmente, se un pane non vende i casi sono due: o è comunicato nel modo errato, o va tolto.
Il semplice fatto di dover gestire un banco richiede uno sforzo organizzativo e previsionale completamente diverso. Facciamo ancora una volta un confronto con una pizzeria: l’impasto viene realizzato in base ai dati di vendita periodici, ma se una parte dei panetti non viene utilizzata in alcuni casi può essere possibile rigenerarli ed utilizzarli nel servizio successivo.
Ciò non significa che lo studio del cosiddetto forecast (la previsione delle vendite future sulla base di quelle passate) non debba essere accurato, ma genera un rischio minore.
Per un’ attività da banco le cose si complicano, perché l’invenduto rimane, di fatto, invenduto. Alcuni locali vendono magari il pane del giorno prima a metà prezzo (invitando la gente a utilizzarlo per bruschette), altri ricavano e commerciano pan grattato, ma si tratta comunque di espedienti volti a ridurre per quanto possibile gli sprechi che vanno assolutamente limitati.
A tal proposito, Davide Longoni sta lavorando a un progetto molto ambizioso: non solo le casse dei negozi registrano i dati di vendita in cloud, ma lo stesso magazzino è gestito in maniera “intelligente”. È infatti possibile caricare delle vere e proprie ricette, in modo da effettuare ordini automatici quando le scorte degli ingredienti sono quasi al termine, minimizzando i costi logistici e assicurandosi che la produzione abbia sempre tutte le materie prime necessarie. Le ordinazioni dai fornitori sono ovviamente realizzate a fronte dei dati di forecast, elaborati anche in base a periodicità, festivi, feriali, weekend o addirittura alle previsioni meteo; generalmente un panificio, quando piove, vende considerevolmente meno pane perché la gente non esce di casa, e per tal motivo di recente è stato intensificato l’appoggio a soluzioni di delivery, come Cosaporto.it.
Il lievito madre
Sul lievito madre abbiamo consumato litri di inchiostro: relativamente all’esercizio domestico abbiamo spiegato cos’è, come si rinfresca, da cosa si differenzia rispetto ai classici pre-fermenti, come si realizza e infine come si utilizza per fare il pane perfetto.
In quei frangenti abbiamo spesso ripetuto quanto complessa sia la sua gestione; il lievito madre è un vero e proprio organismo vivente, un impasto di acqua e farina lasciato a maturare per un tempo più o meno lungo, durante il quale lieviti e batteri lattici e acetici contenuti in aria e farina avviano la fermentazione. Richiede una pratica di rinfresco continuo perché il suo ciclo di vita si mantenga attivo e a livelli ottimali, fondamentali per la corretta panificazione.
Senza un lievito madre in salute, in forza e con un’acidità bilanciata è impossibile realizzare un buon pane caratterizzato da profumi, struttura ma soprattutto shelf-life duratura, fondamentale per i grossi formati e per le farine deboli o di cereali differenti dal grano tenero, che richiedono accortezze maggiori. Ciò non significa che il pane sia realizzabile solo con lievito madre, ma che usarlo per moda è la cosa più sbagliata in assoluto, in quanto senza le giuste accortezze il risultato finale sarà scarsamente qualitativo.
Contrariamente al contesto domestico, per un laboratorio che ne fa costante uso la faccenda è tremendamente più semplice, in quanto i rinfreschi sono molto costanti e addirittura esistono farine professionali specifiche per il suo mantenimento. A tal proposito è importante ricordarsi di rispettare la tabella di marcia, in modo tale che per l’orario in cui si prevede di cominciare un determinato impasto il lievito sia arrivato al punto di maturazione perfetto.
Spesso e volentieri poi alcuni prodotti specifici possono richiedere lieviti differenti; è il caso della segale, cereale profumatissimo e in grado di regalare soddisfazioni enormi (specialmente se di provenienza quasi autoctona), ma la cui particolare struttura proteica richiede una madre particolarmente acida per legare e sviluppare una minima apertura, nonostante la carenza di glutine.
Ragion per cui, per determinare il punto in maniera oggettiva il momento perfetto per utilizzare il lievito viene utilizzato il pH-metro, in barba a chi sostiene che i panificatori veri fanno (e devono fare) tutto a occhio, con il manico e l’esperienza.
O “a caso”, secondo i punti di vista.
La linea di impasti
All’automatizzazione del magazzino a monte e della vendita a valle deve conseguire quindi una precisa logica organizzativa nella produzione vera e propria. Un simile panificio lavora con una ventina di tipi di pane (tra stagionali, fissi e nuove proposte), che equivalgono a venti impasti diversi ai quali si aggiungono quelli per pizza, focaccia o eventualmente grandi lievitati durante le occorrenze.
In questo panificio si lavora a squadre alterne. La cottura è concentrata durante la notte, indicativamente dalle 23 alle 6 del mattino; verso le 5 partono invece le prime operazioni per la preparazione degli impasti, svolti in serie sulle diverse macchine in base alla quantità richiesta. L’obiettivo è quello di terminare le formature delle pagnotte alle 13, che andranno poi in cella fino alla cottura della notte successiva, e così via.
Tutta la timeline viene schedulata in maniera precisa su delle matrici, vengono segnati i tempi, contati gli impasti e i panetti realizzati.
L’importanza dell’organizzazione emerge anche dinnanzi ad un ulteriore aspetto: ottimizzando i ritmi produttivi e abbattendo i tempi morti è possibile trovare spazio per sperimentare continuamente nuovi impasti e tecniche, progredendo sempre di più in un mondo (quello dell’arte bianca) che è in continua evoluzione. Ogni giorno da Longoni vengono provate nuove tecniche, nuove ricette, abbinati pre-fermenti e lieviti di colture diverse in modo da creare prodotti innovativi non solo dal punto divista sensoriale, ma anche da quello pratico per quanto riguarda la produzione; un pane che richiede attenzione costante e che si dimostra in completa dissonanza rispetto alla timeline stabilita, è un pane che rischia di mandare all’aria tutta la schedulazione e compromettere il risultato globale.
La formatura
Intorno alle 8 di mattina i primi impasti fatti hanno terminato la fase di puntata in massa, svolta nei classici “mastelli”, contenitori capienti dove l’impasto matura e, crescendo verso l’alto, prende forza.
Arriva quindi il momento di spezzare cassone dopo cassone, ricavando forme del peso specifico per il pane; si va dalle pezzature di 150 gr dedicate ai panini per i ristoranti, ai filoni da 500 gr, alle forme classiche da 1.2 kg (per un peso cotto da 1 kg) fino ai “tronchi” da 3 kg.Qui la preferenza verte sul grande formato, e ultimamente persino i conditi come il Pan Tramvai (all’uvetta), alle olive, alle noci ecc. vengono realizzati su richiesta anche di misure maggiori.
C’è chi pesa e chi pre-forma, disponendo il tutto in ordine sul banco. Dopo circa 30 minuti, a banco finito, si procede con la forma vera e propria e al posizionamento nei cestini infarinati o, nel caso di alcuni filoni, in cassetta o sui teli ripiegati.
E così via, fino all’ultimo mastello.
La lievitazione
La lievitazione è una fase cruciale per la buona riuscita del prodotto finito; le forme vengono caricate su vassoi o teglie e appoggiati su carrelli verticali. Qui resteranno circa un’ora in modo da consentire alla lievitazione di partire; dopodiché verranno alloggiati nella cella frigorifera in modo da rallentare la fermentazione e consentire la cottura dilazionata durante la sessione notturna.
Tale timeline viene eseguita per la maggior parte dei pani, mantenendo una puntata breve al caldo e un appretto lungo a temperatura contenuta. Altre tipologie possono richiedere un discorso differente, con la puntata più lunga in massa e l’appretto corto e al caldo, che verrà quindi eseguito dalla squadra notturna.
Discorso ancor diverso per prodotti complessi come la segale, caratterizzata da una fermentazione molto intensa e che deve perciò essere cotta entro poche ore. Viene quindi impastata, posizionata al caldo, formata, fatta lievitare e poi cotta nella stessa mattinata.
La cottura
La notte è da sempre il regno del fornaio. La squadra si occupa di prendere le forme appena pronte, disporle sui telai, praticare il taglio previsto per quel tipo di pane e infornarlo a temperatura stabilita fino a cottura ultimata, la prima parte con vapore e la seconda senza, per far asciugare correttamente il prodotto.
Dopodiché il pane viene sfornato e disposto su ripiani forati in modo da consentirne il corretto raffreddamento ed evitare che il vapore acqueo rovini la crosta, in attesa che gli addetti alla distribuzione lo portino nei negozi.
Un tripudio di croste fumanti, caramellate ed estremamente profumate.
I pani dolci o in cassetta chiusa vengono invece cotti nei forni a convenzione, che consentono una distribuzione uniforme del calore.
Anche per tali forme, una volta sfornate, è previsto l’ovvio raffreddamento su griglia prima della distribuzione.
Il pane
Credetemi quando vi dico che sono rimasto piacevolmente sorpreso dall’osservare che nel laboratorio di Longoni si lavora in gran parte seguendo l’innovativa scuola californiana, campo d’azione del celebre Chad Robertson di Tartine Bakery a San Francisco: un pane parecchio idratato realizzato però con miscele molto deboli, e che per tal motivo richiedono una grandissima manualità. Il risultato è un prodotto leggerissimo, voluminoso, dalla crosta fragrantissima.
Un processo attento e calibrato, che necessita di molta attenzione: specialmente nel caso di cereali a scarso contenuto di glutine (se no nullo) è fondamentale non solo avere un lievito madre in forza ma anche toccarlo il meno possibile e nella maniera più efficace; la formatura deve essere svelta e precisa, in modo da non rovinare la struttura dando però al semilavorato la forza necessaria per crescere in altezza e guadagnare volume e leggerezza in cottura.
Bello vedere con i propri occhi che in Italia vi sono personalità che contribuiscono alla crescita del settore, senza rimanere ancorati a vecchie tradizioni o al paradossale e proverbiale “pane di una volta”.
Siamo onesti: segale, perciasacchi, tumminia, saragolla, senatore cappelli, monococco sono cereali che i nostri padri utilizzavano in grandi quantità in tantissime regioni, ma non certo con le tecniche e le attenzioni di oggi, senza l’intervento dell’uomo, sempre diverso per natura e ottenuto da farine “vere” (insomma, non da preparati industriali intrisi di aiutini correttivi, che poi vanno a scapito dei profumi).
Se poi quello stesso pane è il risultato di una filiera ambiziosa e realizzata nei dintorni ri-qualificati del milanese, beh tanto di cappello al “pane di campagna”.
E se passione, ricerca e abilità sono accompagnate dal rigore scientifico, dalla precisione nella misurazione di temperature, tempi e pH, il risultato non può che essere stratosferico nonostante l’apparente difficoltà del metodo.
Ho toccato con mano centinaia di forme e posso assicurarvi che a fronte di un processo sicuro il prodotto finito vien da sè, persino nel caso della stupenda ma complicatissima segale.
La pizza
La pizza, per un fornaio, è la vera scommessa. Si tratta, come spesso affermato da Bonci, dell’eroe dei nostri tempi, la vera discriminante che permette di generare margine sulle vendite e dare prestigio a un banco.
Eppure, secondo Longoni, è la sfida più difficile; una pizza da panificio deve essere possibilmente buona anche da fredda, ma soprattutto perfetta a fronte di un rigenero. Nel caso dei negozi dislocati rispetto al laboratorio si hanno a disposizioni pochi scaldapizze adibiti allo scopo, ma anche avendo il forno dietro alle spalle potrebbe essere uno solo e occupato per altre infornate.
È quindi fondamentale che i prodotti siano testati non solo sul profilo aromatico e gustativo, ma anche in base alla tenuta al raffreddamento.
Nel caso del laboratorio di Longoni la fascia adibita alla “pizzeria” (che racchiude pizza e focaccia) ha pre-fermenti o lieviti differenti dalla panetteria e lavora con tempi molto diversi; dopo numerose prove, Andrea Sambito (responsabile del reparto) è arrivato a realizzare un impasto in grado di congiungere praticità ed efficacia al tempo stesso.
A Milano tradizionalmente il cliente richiede il trancio (se non lo conoscete vi taglio le mani) o la lingua, una sorta di piccola pala del peso di 250 gr, molto idratata, sviluppata e croccante.
Vengono realizzate le basi rosse e bianche, pre-cotte, poi condite e distribuite nei negozi.
La focaccia
Che banco sarebbe senza focaccia? Da Longoni, nonostante la lontananza dalla terra di origine, tantissima ricerca è stata dedicata a una versione prettamente personale della celebre focaccia barese (e anche qui, se non la conoscete son bastonate).
Andrea stesso si è assicurato di precisare la differenza dalla ricetta tradizionale; si sa, il campanilismo da tifosi è purtroppo un classico intramontabile del nostro bel paese. La loro barese è il risultato di un viaggio, una raccolta di esperienze che converge in un prodotto straordinario; ve lo assicuro, è una delle focacce più buone che mi sia mai capitato di assaggiare.
Il blend di grani duri arriva dalla loro filiera abruzzese, una mix della popolazione “evolutiva” coltivata con il metodo Ceccarelli (una pratica agricola che si fonda sul miglioramento genetico, mescolando semi di varietà diverse della stessa specie), saragolla e senatore Cappelli. Tale miscela viene utilizzata sia per il rinfresco del lievito madre, sia per l’impasto finale con semola burattata, patate e un’idratazione molto elevata.
I panetti vengono fatti lievitare in massa, poi spezzati e disposti sulle classiche teglie in latta coperte da carta forno, per assicurarsi che in caso di problemi non si debba impazzire durante il distacco dal supporto.
Segue una seconda lievitazione, poi il panetto viene schiacciato direttamente sulla teglia, condito e fatto lievitare nuovamente prima della cottura, con pomodoro e origano oppure con cipolle.
Un risultato spettacolare, croccante, leggerissimo e molto profumato grazie all’utilizzo della buccia delle patate nello stesso impasto che donano un aroma molto caratteristico.
Ma soprattutto un prodotto pratico, che grazie alla lievitazione in teglia consente di organizzare i tempi lavorando su altri impasti mentre la fermentazione ha luogo.
Per non parlare dell’efficacia finale: mangiata fredda conserva per ore le sue caratteristiche, dimostrandosi perfetta per il banco.
Come per la pizza, il problema focaccia è spesso rivisto anche da Longoni, che considera ad esempio la classica genovese un prodotto golosissimo ma poco indicato per i suoi ideali, in quanto non in grado di conservare per tante ore tutte le sue peculiarità iniziali.
La resa, tuttavia, non è assolutamente contemplata. È recentissima la loro idea della Revzora, una specialità tipica della Valle Stura nell’entroterra genovese, realizzata con aggiunta di farina di mais e patate.
Marketing e vendita
Il pane è un prodotto difficile, senza ombra di dubbio. Sebbene sia considerato uno dei simboli della tavola e della convivialità (specialmente in grande formato), oggi è demonizzato dalle diete e relegato alle colazioni; siamo passati (anche per ottimi motivi) dal consumare 1 kg di pane a 40-50 grammi al giorno pro-capite.
A tal proposito si rende fondamentale il ruolo comunicativo. Chi compra da Davide Longoni, da Gabriele Bonci o da Marco Lattanzi non sta acquistando del semplice pane, ma la loro idea, la loro identità, il loro concetto di pane moderno.
Un pane che, di fatto, è un brand: implica un’identità ben precisa che, in casi come questi, viene seguita e comunicata con coerenza. Un’idea di farina e filiera, dal campo al dipendente del negozio e, per forza di cose, un’ottimizzazione scientifica dei costi. Rendere competitiva (creando margine, insomma..) un’azienda che persegue una certa etica, dalla A alla Z, non è facile.
Un esempio pratico: più di sette anni fa, a Novembre 2013, ascoltavo Longoni parlare di un pane nero di segale, una tipologia volutamente dimenticata in quanto tristemente associata alla miseria nera del dopoguerra. Oggi, in un giorno (il sabato per la precisione) Longoni arriva a vendere 100 chili di quel pane.
[ Immagini: Alessandro Trezzi, Davide Longoni, Andrea Sambito ]