La mozzarella di bufala campana DOP è sicuramente uno dei fiori all’occhiello della gastronomia non soltanto campana, ma di tutta l’Italia intera. Si tratta di una delle Denominazioni di Origine più esportate e famose: quasi di conseguenza, una delle più sensibili alle contraffazioni. Si parte dal latte adulterato, finendo ai veri e propri fenomeni di Italian sounding sotto forma di filoni da cagliate vegetali non meglio identificati. Ahh, quello che combinano all’estero con i nostri prodotti. Quanto ci fa arrabbiare.
Ma cosa ha contribuito a rendere questo prodotto così amato e desiderato? Sicuramente, alcuni casi di studio aziendali riguardanti i caseifici con allevamenti virtuosi: abbiamo visto – e vediamo – bufale coccolate e felici in territori ameni, munte il giusto e senza sovraccarichi. Una sorta di favoletta felice, per gran parte (se non del tutto) vera, con il quale nutriamo l’ego mentre addentiamo la nostra mozzarella di bufala campana DOP.
Ma siamo davvero sicuri che sia tutta buona mozzarella di bufala quel bianco che luccica? In un articolo sul sito Foodclub.it il dottor Antonio Lucisano – in passato direttore del Consorzio della mozzarella di bufala campana DOP – porta alla luce un dramma che sostanzialmente non è mai stato risolto: l’uccisione e l’abbandono degli annutoli, cioè i piccoli maschi di bufalo.
L’occasione per la ripresa di questo tema è stato appunto una denuncia fatta da alcune associazioni animaliste e riportate sul quotidiano online L’occhio di Salerno. Lo scorso gennaio, infatti, è stato ritrovato un bufalino morto sul litorale di Capaccio-Paestum, tra il medio Sele e il Cilento. Le associazioni denunciano il fatto che non sia un caso isolato: negli ultimi anni sono stati svariati i ritrovamenti di cadaveri bufalini sulle spiagge, fatto da attribuire agli alti costi di soppressione dell’animale in mattatoio.
Nel riprendere questo fatto di cronaca decisamente triste, Lucisano porta alla luce qualche cosa che – diciamolo, pure tranquillamente – nel racconto delle “bufale felici” è stato placidamente omesso almeno negli ultimi anni. Per quanto riguarda questo ramo della zootecnia, gli animali di sesso femminile sono quelli davvero “utili”. Da ciò, nasce uno scarto quasi automatico degli animali di sesso maschile. Riassumendo: le bufale servono per il latte e i bufali non sono collocabili sul mercato.
I bufali non hanno mercato
Perchè i bufalini non hanno mercato? Il costo di allevamento di un bufalo maschio per almeno 18/24 mesi, spiega Lucisano, non è economicamente sostenibile: quei mesi servirebbero all’animale per svilupparsi abbastanza da essere macellato e, quindi, essere proposto sul mercato come carne di bufalo. Dato ciò, moltissimi allevamenti preferiscono “sbarazzarsi” (e mi scuso per il termine forte) degli esemplari maschi; molte volte, anche in modi illegali, come il caso sopracitato dello scorso Gennaio a Paestum. Casi che in passato erano moltissimi, ma il fenomeno non si può dire certo sparito ad oggi.
Ma proprio niente si può fare per “reimpiegare” i bufali nella catena produttiva? In realtà, la carne di bufalo pare abbia delle notevoli proprietà nutrizionali, tra le quali un tasso di colesterolo decisamente basso e un valore proteico considerevole.
Insomma: la carne di bufalo potrebbe essere adeguatamente valorizzata, se di concerto politica ed imprenditoria decidessero di investire su di essa, finanche creando i presupposti per un riconoscimento IGP. Il tentativo di creare una rete commerciale fu in realtà intrapreso nel 2007, presentando la domanda proprio per creare il riconoscimento IGP per la carne di bufalo; caso più unico che raro, l’Unione Europea respinse la domanda e… non è mai stato più tentato.
Nulla di fatto, quindi, per designare ai bufali maschi non tanto un destino migliore quanto più la stessa dignità riservata alla controparte femminile produttrice di latte. Se nella “migliore delle ipotesi” vengono accompagnati al mattatoio, nella peggiore vengono uccisi ed abbandonati come carcasse in luoghi solitari.
Ciò che viene riservato ai bufalotti stride pesantemente, quindi, con la politica rosea che ci viene proposta sul trattamento fantastico delle bufale. In altre parole, siamo di fronte – e temo di non andarci troppo pesante – ad uno di quei casi di un fenomeno che si chiama humanewashing. Come ci ha spiegato il nostro Dario De Marco non più di qualche settimana fa, l’humanewashing consiste nel fornire informazioni fuorvianti, parziali oppure semplicemente false sul “buon” trattamento degli animali dei quali ci nutriamo oppure dai quali preleviamo prodotti, allo scopo di far buona pubblicità a un prodotto o ridefinire l’immagine di un’azienda. In questo caso, di un vero e proprio mercato.
Giunti a questo punto, viene da farsi inevitabilmente una riflessione. Se siamo così sensibili al benessere animale, perché nel caso della mozzarella di bufala sembriamo dimenticarlo? Le nostre coscienze si muovono a pietà, ad esempio, quando vediamo le oche nutrite a forza con la pratica del gavage per poi ricavarne foie gras; le coscienze ne sono smosse al punto che sarà vietata la vendita in molti supermercati italiani. Nondimeno, esistono altri cibi che vengono da trattamenti tanto spietati che rendono difficile anche il sentirne parlare. Come dimenticare il caso dell’ortolano, l’uccellino che viene nutrito a forza fino a raddoppiare il suo peso per poi essere affogato da vivo nell’Armagnac. O ancora, compriamo uova da allevamento all’aperto perché siamo terrorizzati dalle immagini delle galline in batteria e dai pulcini triturati. E altro ancora.
Non penso sia necessario continuare la lista citando gli animali d’affezione come cani e gatti, le balene e i delfini, o ancora gli storioni praticamente torturati per il caviale. Dunque, nel nostro consumo pressoché quotidiano di mozzarella di bufala (se non è consumo, è la facilità di reperimento), perché la sorte dei bufalotti maschi dovrebbe esserci estranea?
Riuscirete a mangiarle la mozzarella di bufala come prima?