Tra le tante cose che ci ha insegnato la guerra in Ucraina, quella che più ha avuto impatto sul quotidiano è una: abbiamo finalmente imparato da dove arriva il grano che mangiamo tutti i giorni attraverso uno degli alimenti base della dieta mediterranea, la pasta. Quel grano – ora lo sappiamo – non lo produciamo noi, o almeno, non nelle quantità che ci consentono di calare ogni pranzo e ogni cena i nostri cinquanta / cento grammi di spaghetti a testa. La verità, come ammette anche il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, è che l’Italia è “strutturalmente deficitaria” per quanto riguarda la produzione di grano. Ne importiamo più o meno il 50% sia di quello tenero che di quello duro.
È un problema? Certo che lo è, anche se non esattamente per i temi legati alla difesa del Made in Italy che tanto piacciono a questo governo. Il tema, semmai, è che non possiamo essere dipendenti dall’esterno rispetto a una materia prima di base, che quotidianamente consumiamo nelle nostre case e della quale non siamo disposti a fare a meno. Ce l’ha insegnato questo conflitto, mettendoci in crisi rispetto agli approvvigionamenti di quello che abbiamo scoperto essere il “granaio d’Europa” e facendo di conseguenza aumentare il prezzo della pasta (che è salito in media del 25,3% rispetto allo scorso anno).
Quindi sì, qualche soluzione bisogna trovarla, ma non siamo del tutto sicuri che quelle proposte dal ministero siano quelle giuste (e che siano farina del sacco di Lollobrigida, per rimanere in una metafora pertinente).
Le richieste della Cia-Agricoltori Italiani
Che questo sia un governo particolarmente attento alle richieste degli agricoltori e dei coltivatori era apparso chiaro fin da subito. Lollobrigida e Meloni viaggiano a braccetto con Coldiretti su moltissimi temi, incluso quello della carne coltivata. E anche sul tema del grano, a giudicare dalla linea adottata da Lollobrigida – che vuole salvaguardare il valore aggiunto del grano italiano, a costo di finanziarne anche con fondi nazionali la produzione. Il che, ci sembra di capire, significa grossomodo incentivare economicamente gli agricoltori nazionali a produrre più grano, cosa che non vogliono più fare da un po’. E se non lo vogliono più fare, il motivo è che il grano – quel pregiatissimo grano italiano – viene pagato loro sempre meno.
Ma siamo certi che la soluzione siano, ancora una volta, i contratti di filiera o gli aiuti pubblici a garantire la ripartenza di un settore che, questo è vero, è cruciale per l’immagine e per l’economia italiana nel mondo
Probabilmente no, anche se è questo che chiedono gli agricoltori da tempo, ed è questo che pare di capire abbia in mente di fare il ministro Lollobrigida. Non a caso, la Cia-Agricoltori Italiani, già lo scorso luglio, aveva chiesto a Lollobrigida di “salvaguardando il vero grano e la vera pasta 100% Made in Italy”, dando “concretezza a quella sovranità alimentare che al momento appare solo come scritta sulla targa del ministero”. Il ministro lo ha fatto immediatamente, pare, facendo suo il discorso della tutela della qualità superiore del nostro grano, che va difeso dai grani importati che hanno salvato fino a ora il 50% delle nostre pastasciuttate di mezzanotte.
Il grano italiano è migliore?
Ma, come sottolineano alcuni – tra cui Enzo Martinelli, presidente della sezione molini a grano duro di Italmopa, l’associazione dell’industria molitoria nazionale – l’origine del grano non è sinonimo di qualità. “Spesso siamo disposti a pagare il doppio il grano importato per poter ottenere la miglior qualità delle semole, che deve corrispondere al capitolato d’acquisto dei pastifici. Il discorso sull’origine non fa altro che legarci le mani, ce lo siamo inventati per agevolare i produttori italiani, e questo è positivo perché ha avviato un processo virtuoso sulla qualità e sui contratti di filiera, ma ci mette in difficoltà perché l’import è necessario per mantenere la qualità. Criminalizzare le importazioni – conclude – è deleterio: il grano più controllato è quello che importiamo, anche perché quando arriva la nave lo abbiamo già pagato“, ha spiegato Martinelli al Sole 24 Ore.
Dunque no, il grano italiano non è necessariamente migliore di quello estero. E no, ci sentiamo ancora una volta di smentire il ministro Lollobrigida, non è vero che “Non esiste un posto dove si può essere più sicuri dell’Italia in fatto di cibo“. Eppure sì, il problema di tutelare una filiera cruciale storicamente, culturalmente ed economicamente per il nostro Paese esiste davvero. Ma il modo migliore per tutelarla non è, ancora una volta, mettere una toppa tramite finanziamenti pubblici all’agricoltura. Perché i problemi sono tanti, e come sempre si possono risolvere solo con prospettive, investimenti e progettualità a lungo termine, pensate davvero per il bene comune, e non per accontentare l’elettorato di turno.
C’è ad esempio il tema del cambiamento climatico, responsabile in gran parte di un ulteriore deficit nella produzione di grano nazionale, sia in termini quantitativi che qualitativi. E c’è il tema dell’utilizzo del grano, e della valorizzazione di un prodotto, che è sicuramente una scelta culturale – bisogna insegnare al consumatore a pagare di più per un prodotto di maggiore qualità, e non per un prodotto genericamente “italiano”, per partito preso – ma è anche una scelta frutto di politiche che sarebbe ora di rivedere e correggere. Come fece notare Greenpeace all’indomani dell’inizio della crisi del grano, “oltre il 60% dei cereali e due terzi dei terreni agricoli europei è ancora destinato all’alimentazione degli animali rinchiusi negli allevamenti intensivi“. Non sappiamo quanto di questo grano è di produzione italiana, ma certamente sappiamo che ci piacerebbe fosse zero, nell’ottica di coltivare un grano davvero migliore, davvero d’eccellenza, e di tutelare insieme consumatori e filiera, rilanciando quello che potrebbe essere un nodo cardine dell’economia agricola italiana.