Piccolo, altezzoso, anche per via del prezzo –sui 70 € al chilo–, meno noto del monumentale prosciutto di Parma, il cugino con l’osso, il culatello è più ancorato alla sua terra d’origine: la Bassa Padana.
E’ qui, vicino al Po, nelle cantine dove da secoli è messo a stagionare, che il culatello si arricchisce di quel sapore inconfondibile che solo in questi luoghi si può sviluppare.
“E’ l’aroma della nebbia”, dicono gli abitanti di Busseto, Polesine Parmense, Zibello, Soragna, Roccabianca, San Secondo, Sissa e Colorno, ovvero i comuni della provincia di Parma dove il culatello si può preparare.
E dove la nebbia si estende continua sopra i campi, sopra i tetti, sopra le trattorie, ovunque, come una spessa coltre che impedisce alle correnti fredde di disturbare il sonno del culatello, quella stessa aria necessaria invece per ottenere il prosciutto.
Quella nebbia che, oggi come nei secoli passati, trasforma una buona coscia di suino in un sorprendente mix rosso vivo di aromi e sapori.
I produttori di culatello, solamente otto in tutta la zona, lo sanno, e lasciano da secoli il loro prodotto a invecchiare nelle cantine, dove prenderà la tipica e morbida consistenza, simile al lardo, e quel sapore lievemente affumicato.
Così come sanno che in questi luoghi di nebbia e umidità, l’asciugatura è un processo complesso, se non impossibile: per questo tolgono alla carne lo strato più superficiale, la cotenna, conservando solamente il cuore di quello che poi diventerà il culatello.
In questi luoghi si trova l’Antica Corte Pallavicina, antico castello nobiliare dove fin dal 1300 si producono culatelli: ancora oggi, nelle cantine della dimora, trasformata in moderno ristorante, stazionano per la stagionatura fino a seimila culatelli l’anno.
Il culatello deve il suo nome alla parte utilizzata per produrlo, la culatta, una parte della zampa posteriore del maiale da cui vengono rimossi osso e cotenna.
Il processo di produzione non è cambiato dai tempi del Medioevo, e non prevede l’utilizzo di tecniche e macchinari moderni ma solo abili gesti tramandati nei secoli: i tagli di carne vengono dapprima strofinati con sale marino, pepe nero, aglio e spumante locale, il Fortana del Taro, per tutta la prima settimana.
Purtroppo la miscela di salagione consentita dal disciplinare prevede anche una quantità di nitrato di sodio e/o potassio fino alla dose massima di 195 mg per chilo di carne.
Dopodiché i culatelli vengono puliti, appesi in vesciche di maiale precedentemente pulite con aceto e infine appesi nelle cantine, a riposare.
A differenza del prosciutto, non sono previsti sistemi di climatizzazione dei locali, se non l’apertura e la chiusura periodica delle finestre della cantina, di modo che i culatelli possano sviluppare quelle muffe naturali responsabili del sapore unico e inconfondibile che solo il Po riesce a garantire.
Nella cantine della Corte Pallavicina i culatelli stazionano per un periodo da uno a tre anni, e dopo il primo anno un ispettore verifica, con un apposito strumento a forma di martelletto, la consistenza della carne, assicurandosi che non ci siano problemi di cattiva fermentazione, passaggio necessario per ottenere la certificazione DOP.
Certificazione che prevede l’impiego solo di maiali bianchi tradizionali, nonostante il vero culatello, quello storico, preveda l’uso di maiali neri “di razza pura” –più piccoli e con crescita più lenta–, purtroppo non esistente quando fu istituita la DOP sul culatello.
A oggi sono 75.000 i culatelli prodotti nella zona che vengono certificati –contro gli 8,7 milioni di prosciutti–, di cui 1000 da maiali neri. Il peso medio è di circa 4 chili, mentre per i prosciutti il peso medio è di circa 7.
Nell’Antica Corte Pallavicina, il culatello è servito a fette da gustare “in purezza”, da solo, per apprezzarne tutte le note di sapore, e accompagnato dal vino frizzante locale, il Fortana.
Lo chef è Massimo Spigaroli, anche presidente del Consorzio di tutela del culatello di Zibello, discendente egli stesso da una famiglia di produttori di culatello e il cui nonno ha prestato servizio per Giuseppe Verdi.
“Quando si nasce da una famiglia come questa, non si può fare altro”, dice Spigaroli.
Per questo appena possibile ha acquistato l’antica tenuta, dove i suoi avi lavoravano come mezzadri, trasformandola in un ristorante in cui ha riservato a se stesso la carica di chef, stellato dalla guida Michelin, e dove serve il culatello da egli stesso prodotto:
“Un culatello di qualità si riconosce dalla massa di carne rosso rubino e da una noce di grasso che va a dare fragranza e morbidezza a tutto il resto –dice Spigaroli.
La fetta va mangiata intera e gli abbinamenti sono quelli della tradizione: un pane morbido, dolce e non troppo acido che aiuti la salivazione, quando il culatello è più stagionato un ricciolo di burro non guasta. In bocca si sviluppa un gusto inconfondibile che invade tutta la bocca.
Il culatello, come tutti i grandi prodotti, non viene abbinato né lavorato più di tanto, noi infatti lo serviamo in purezza perché ogni volta che lo manipoliamo perdiamo qualcosa”.
Dallo scorso anno, inoltre, è in vigore un decreto che stabilisce le caratteristiche del culatello, la DOP è concessa a chi segue un rigido disciplinare secondo cui possono chiamarsi culatello di Zibello solo i prodotti ottenuti da maiali più di 180 chili, nutriti con cereali e allevati in Emilia e Lombardia, esclusivamente prodotti nei paesi già ricordati:
“La nebbia non è importante solo per il culatello, ma anche per le persone. Quando ti trovi chiuso in questa cappa autunnale ti senti isolato, e quando sei isolato diventi più riflessivo e riesci a trovare soluzioni diverse, a pensare a cose a cui altrimenti non avresti pensato”, dice Spigaroli.
Come a mantenere viva una tradizione secolare come quella del culatello.
[Crediti | Immagini: Frizzi Frizzi, Saveur]