Quando si parla di prodotti agroalimentari del Veneto, la narrazione finisce per tradursi spesso in una ripetizione stereotipata e in un viaggio in luoghi noti: vino? Ecco Prosecco e Amarone; formaggio? Ecco l’Asiago; verdure? Radicchio di Treviso e asparagi di Bassano. Meno noto è il mondo degli insaccati, tra i quali compare un illustre rappresentante, a marchio Dop: il riferimento è al Prosciutto Veneto e alla relativa area geografica di produzione, quella compresa tra i Colli Berici e i Colli Euganei. Per raccontarne caratteristiche, fasi produttive e peculiarità, abbiamo incontrato il Presidente del Consorzio, Attilio Fontana, titolare assieme ai fratelli, dell’omonima (e centenaria) azienda di Montagnana (PD), scoprendo non solo una storia gastronomica ma anche una lunga e intricata vicenda di denominazioni, loghi e strategie di marketing.
I produttori del prosciutto Veneto DOP
Leggere un disciplinare di produzione può essere una gran pena o può tradursi in un viaggio storico geografico: a fare la differenza non è solo il punto di osservazione e lo scopo che si ha, ma anche la preparazione e l’autorevolezza di chi quello stesso disciplinare lo segue, lo spiega e lo rende comprensibile.
Sono tre le province a cui afferisce la zona di produzione del Prosciutto Veneto, Padova, Vicenza e Verona, per un totale di 15 comuni (Montagnana, Borgo Veneto in località Saletto, Ospedaletto Euganeo, Este, Pressana, Roveredo di Guà, Noventa Vicentina, Poiana Maggiore, Orgiano, Alonte, Sossano, Lonigo, Sarego, Villaga, Barbarano-Mossano in località Ponte di Barbarano): qui devono trovarsi i prosciuttifici e qui devono svolgersi le fasi di lavorazione (anche se gli animali possono provenire da un’area più ampia della zona di trasformazione, allargandosi a Lombardia, Emilia-Romagna, Umbria e Lazio).
Perché proprio qui? E’ il prosciutto stesso a rivelarlo, un po’ come avviene per quello di Parma e di San Daniele: racconta Fontana infatti che c’è stato chi, in passato, ha tentato di produrlo a qualche km di distanza, in una zona che sembrava potesse accelerare il processo di stagionatura. Il risultato? Un fallimento secco e immasticabile. I monti Berici da una parte, più uniformi e con dolci pendii, e i colli Euganei dall’altra, inconfondibili grazie ai loro rilievi a cono, danno forma ad un’area con un peculiare andamento dei venti, una temperatura ed un’alternanza di aria secca e umida che svolgono un ruolo fondamentale nella fase di stagionatura.
Prosciutto Veneto Berico-Euganeo: il disciplinare e la storia di un nome
Oltre alla geografia, il prosciutto ha radici storiche, che fanno riferimento alla tradizione celtico-longobarda di allevamento dei maiali, al legame con i caseifici per la produzione di formaggi e quindi all’impiego di siero di latte nell’alimentazione dei suini ed infine alla disponibilità di sale per la conservazione delle carni. Gli statuti cittadini di Montagnana, in particolare, già nel 1366, avevano disciplinato in modo preciso le attività di allevamento, macellazione e vendita mentre, secoli dopo, ai primi del ‘900 è ancora Montagnana a dare vita, nel mese di novembre – tradizionalmente destinato all’uccisione dei maiali – prima ad un mercato di mezzene e poi ad una loro successiva esposizione, con premi in denaro destinati alle migliori.
Prosciutto Veneto D.O.P. in festa
Il nome di Montagnana ricorre con frequenza nei secoli, diventando il riferimento principale nel sentire comune, per quanto riguarda la produzione del prosciutto: a Montagnana il 10 giugno del 1971 venne costituito il Consorzio di Tutela e sempre a Montagnana, dal 1998, a maggio di ogni anno si tiene la Festa del prosciutto. Il riferimento alla città murata tuttavia rappresenta uno dei punti più critici della storia del prodotto, là dove il riferimento gastronomico si intreccia con la tutela del nome e del marchio. Se è vero infatti che il prodotto è molto amato e la relativa festa molto partecipata e sentita – svolgendosi tra l’altro in una delle più belle e meglio conservate città murate d’Europa – è anche vero che la metà dei consumatori parlando del Veneto Dop, lo definisce “Prosciutto di Montagnana”, nome che peraltro non è mai stato codificato, che deriva dal fatto che la città ne rappresenta da sempre il riferimento principale, ma che nel corso del tempo ha contribuito a ingenerare confusione tra il pubblico, con una serie non irrilevante di conseguenze, anche dal punto di vista commerciale.
Da un lato c’è infatti chi non conosce il nome della Dop, dall’altro invece chi, pur conoscendo il riconoscimento e magari vendendo pure un prodotto a marchio, gioca con l’attaccamento del pubblico al nome che lo collega alla città e continua a chiamarlo e venderlo come “di Montagnana”, incorrendo peraltro in sanzione, visto che così viene svilito il prodotto tutelato; dall’altro ancora c’è chi evoca il riferimento nel nome e nel logo alla città murata spacciando per prosciutto Dop un prodotto che invece è di fatto un clamoroso falso.
Lo spirito con cui nacque il Consorzio era quello di valorizzare e tutelare il prodotto e la scelta del nome allora compiuta fu dettata da un ragionamento che se al tempo appariva molto sensato, oggi che il marketing gastronomico viaggia in termini di “locale” e “cittadino” (i casi di San Daniele e di Parma rappresentano il confronto più immediato) mostra purtroppo una debolezza. Gli 8 produttori che diedero vita al Consorzio appartenevano a 3 province diverse: utilizzare un nome che avrebbe fatto riferimento ad una sola provincia non parve una scelta che potesse accontentare tutti. Si optò per un ragionamento legato alla contemporanea nascita delle Regioni, indicando il riferimento al Veneto, e aggiungendo un “Berico Euganeo” nel nome, in relazione alla zona di produzione, ma che ha reso indubbiamente lunga la denominazione, appesantendo ulteriormente il tutto: il nome originario era infatti Prosciutto Veneto Berico Euganeo. Quattro nomi. Quattro. Grande confusione sotto il cielo insomma, direbbe qualcuno, che finisce per indebolire sia all’interno del territorio nazionale che all’estero un prodotto di valore. Lo sforzo comunicativo in cui è impegnato da tempo il Consorzio è notevole e in campo normativo sono intervenuti dei punti fermi: nel 1981 la legge (n. 628) che attesta il riconoscimento di origine tipica, nel 1996 l’ottenimento del marchio Dop, 3 sentenze della Corte di Giustizia europea intervenute a condannare qualsiasi evocazione del nome a danno dei consumatori e, non da ultimo, il lavoro degli agenti vigilatori sulla corretta utilizzazione del marchio.
Prosciutto Veneto: le caratteristiche e il gusto
Recensire un piatto è una cosa, descrivere un prodotto che è il risultato di due ingredienti è, paradossalmente, più arduo e restituisce solo in parte la sua complessità e l’esperienza di chi quel prodotto lo realizza. Cosce di suino italiano (“suino pesante”, per la precisione) e sale: il resto è come l’equilibrio del funambolo. Equilibrio tra sale e carne, tra aria secca e umida, tra tempi di asciugatura e stagionatura. Inaspettatamente, prima ancora che il palato, è il naso a cogliere le sfumature che caratterizzano le varie fasi di lavorazione, con le cosce che sono in grado di sprigionare nel corso del tempo aromi diversi, lasciando avvertire una delicatezza iniziale che lascia il posto a complessità, note di cantina, personalità delle parti grasse della carne man mano che la stagionatura avanza. Il palato non fa altro che ritrovare la stessa coerenza appresa dal naso, amplificandola attraverso il calore e cogliendo appieno le note di sale che rimangono sullo sfondo, mentre ad essere protagonista è una dolcezza accentuata ma non banale che definisce un prosciutto elegante e fine, dal colore rosato, con le parti grasse perfettamente bianche, e una marezzatura lieve e gentile.
Come si fa il Prosciutto Veneto
Il processo produttivo prevede una serie di fasi distinte: raffreddamento, rifilatura, salagione, semipressatura, riposo, lavatura, asciugatura e stagionatura. Le cosce fresche – di peso non inferiore ai 11,8 kg, preferibilmente tra 12 e 15 kg e che arriveranno ai circa 8 kg al termine della stagionatura – vengono poste in celle di raffreddamento per un periodo di 24 ore per portarne la temperatura a 0°C, per agevolarne la rifilatura. Fontana spiega che tutte le fasi, fino al 120° giorno, prevedono una temperatura delle cosce compresa tra 0° e 4° gradi: non è un arco di tempo casuale ma è quello che riproduce esattamente i 4 mesi invernali durante i quali in passato avvenivano le prime fasi di lavorazione delle carni suine e l’azione di conservazione in sinergia tra sale e freddo. I 4 mesi sono necessari affinché il sale penetri fino al cuore in modo tale da garantire una perfetta conservazione.
Rifilate, massaggiate e spremute – affinché accolgano meglio il sale – meccanicamente o manualmente, le cosce vengono quindi coperte di sale (“i punti critici sono testa del femore, vena e arteria femorali e anchetta”), per un periodo di tempo fissato da disciplinare in un giorno per ogni kg di peso. Fontana spiega che in un’ottica di un minor consumo di sale, rispetto al disciplinare del 1971 la quantità è stata ridotta del 20%, arrivando oggi ad una misura che non può superare il 6% ricavata sul solo bicipite femorale (quello che effettivamente è consumato è invece pari al 2%), e che viene presa mensilmente, su ogni 1000 prosciutti. Contestualmente, altra modifica significativa del disciplinare, è stata l’allungamento della stagionatura, che da un minimo di 12 mesi è passata ad almeno 14 mesi, anche se, di fatto, oggi è difficile trovare prosciutti stagionati meno di 18 mesi. Verso la metà dei periodo indicato si asporta il sale rimasto sulla superficie della coscia, che viene rimassaggiata e coperta di sale per il periodo rimanente, al termine del quale viene massaggiata nuovamente e sottoposta al lavoro di una dissalatrice ad aria compressa. E’ al termine dei 15 giorni di riposo che si procede con l’operazione che caratterizza in modo inconfondibile la forma del Prosciutto Veneto: l’anchetta, che tende a sporgere per l’azione del sale, viene accorciata, in modo tale che il prosciutto non risenta di angolature strane e si asciughi al meglio. Ha inizio la fase di riposo in celle con umidità compresa tra il 70% e 80%, temperatura compresa tra i 2° e i 6°C, per un periodo di tempo variabile tra i 75 e i 100 giorni.
Si procede quindi al lavaggio delle cosce con un getto d’acqua a 40°C per circa 30 secondi: lo scopo non è solo quello di togliere i residui di sale, ma soprattutto – grazie allo shock termico – quello di innescare il processo di proteolisi, una sorta di stagionatura naturale. Poste in celle di asciugamento (umidità pari al 90% circa, temperature comprese tra 15° e 24°C) per una settimana circa, le cosce affrontano finalmente l’ultima fase, la stagionatura. Dopo un primo periodo di circa 35-40 giorni in cui si passa da temperature progressivamente più alte (dai 12°C ai 14°C iniziali ai 14°C-19°C finali), le cosce vengono sottoposte a stuccatura. Sulla superficie viene applicato uno strato di sugna e farina (“farina di riso. Una volta con il frumento era più facile. Con lo scopo di fare un prodotto veramente senza glutine, noi adoperiamo farina di riso”, spiega Fontana) per ammorbidire e proteggere le carni. Trasferite in saloni con finestre disposte trasversalmente e aperte solo per far circolare l’aria e non per far entrare la luce, le cosce vengono periodicamente controllate, eventualmente raschiate e ristuccate. I criteri e gli strumenti? Si va ad occhio e a mano, ovviamente. Un’operazione fondamentale per controllare la maturazione consiste nella puntatura: utilizzando un “ago” di osso di cavallo – “l’unico strumento che si autoresetta da solo e che non assorbe né trasferisce i profumi e aromi da una zona all’altra” – le cosce vengono “forate” in 5 punti precisi: testa e lati del femore, anchetta, arteria femorale e vena femorale.
Al termine della stagionatura, e dopo i controlli dell’Istituto di Certificazione (“ogni mille prosciutti, ogni mese, ne viene prelevato uno, ricavato il bicipite femorale e verificati in laboratorio i valori di sale, indice di proteolisi, acqua e grassi, valori che devono essere conformi a disciplinare”), ecco l’apposizione del marchio: il leone di San Marco sotto il quale compare la parola “Veneto”. Il marchio, assieme alla sigla che identifica il produttore, al tatuaggio che identifica allevatore e data di nascita del suinetto, ed al sigillo che consente di rilevare il periodo minimo di stagionatura e la data di produzione, rappresenta la fine del ciclo produttivo. Quello per il quale oggi si attende la Festa e lo stesso che nel 1881 vide il primo premio all’Esposizione Nazionale di Milano e nel 1904 il diploma dal Crystal Palace di Londra nell’ambito dell’International Food, Grocery and Allied Trades.
Il prezzo del Prosciutto Veneto
Al pari degli altri consorzi e di altri prodotti , ci sono differenze esorbitanti fra produttore e produttore. In generale, e al netto delle attività promozionali, la DOP veneta dedicata al prosciutto si trova al supermercato a partire dai 30 euro. Il prezzo si alza nei negozi di alta gastronomia, fino ai 48 euro al chilo. I negozi acquistano il prosciutto disossato direttamente dagli stabilimenti, nella quasi totalità dei casi, pagando il prodotto tra i 13 e i 20,50 euro al chilo, iva esclusa.