Il monopolio è la concentrazione dell’offerta del mercato nelle mani di un solo produttore, una cosa, a guardarla così, che va in senso contrario al liberismo economico che ci piace tanto. Eppure – ci avete fatto caso? – se il monopolio è “di Stato” la connotazione negativa si perde. Immagino che questo dipenda dal fatto che lo stato impone i monopoli su merci che fanno male alla salute, e il suo controllo dovrebbe garantire l’immissione sul mercato di una quantità limitata e ben controllata di questi prodotti, in modo insomma, che non facciano più male del dovuto. Tra i monopoli di stato, quello degli alcolici è ancora oggi uno di quelli che pensano di più ai produttori; in certe zone d’Italia il consumo inveterato di alcool e la sua altrettanto inveterata produzione casalinga vede la gabella un’imposizione decisamente insensibile alle abitudini tradizionale.
Ma andiamo con ordine: le imposte sugli spiriti sono immediatamente successive all’Unità d’Italia (risalgono infatti al 1870), le maglie però si sono strette nel primo dopoguerra. Fino ad allora infatti l’imposta era applicata al collo, la damigiana, e stava dunque alla buonafede del singolo produttore dichiarare tutte le damigiane prodotte.
Con la fine della prima guerra mondiale, il consumo di alcolici aumentò esponenzialmente, soprattutto nel nord Italia dove la produzione casalinga di superalcolici, la grappa innanzi tutto, era comune. Il superalcolico sopperiva alle calorie mancanti dall’alimentazione, ed era dunque consumato da tutti, anche dai più piccoli.
Fu in questo periodo che lo Stato dette la prima stretta: come riparazione dei danni di guerra l’Italia chiese all’Austria cannoni, lenti di precisione e meccanica di precisione.
Con la meccanica di precisione arrivarono dei contatori da distilleria che permisero allo stato di passare dalla denuncia del collo ad un sistema di deposito fiscale, cioè non sei tu che porti l’alcool alla finanza ma la finanza che lo conta direttamente a casa tua.
La meccanica del 15-18 (e non è un modo di dire)
La prima cosa sconcertante è che non solo la meccanica, ma proprio le macchine che fanno la conta dell’alcool sono ancora quelle e sono in uso in ogni distilleria dichiarata d’Italia.
Si tratta di una specie di orologio di ferro, un semicerchio posato su una torretta. All’interno c’è un disco di stagno diviso in tre spicchi: dall’impianto di distillazione arriva il liquido che riempie il primo spicchio, il peso lo fa spostare di lato e il suo contenuto si svuota in una cisterna sigillata, che può aprire solo la guardia di finanza. Intanto nell’orologio-contatore si riempie un altro spicchio e così via. Quando la cisterna è piena arriva il controllo e se quello che dice il contatore del 1918 non risponde al vero contenuto della cisterna si avvia un’indagine.
Quali sono i problemi di una meccanica così antiquata me lo ha spiegato Marco Schiavo, quarta generazione di una piccola distilleria di Costabissara (VI) con un magnifico (e visitabile) impianto di distillazione d’epoca ancora in uso e il loro bel contatore vecchio cent’anni. Loro, una volta ogni tot, con la supervisione della guardia di finanza, aprono il contatore e lo oliano con l’olio di lino, praticamente la stessa manutenzione che faccio io alla Singer a pedali di mia nonna. Il terrore che gli si dipinge sul volto quando gli domando: “E se dovesse rompersi un pezzo?” è indicativo. Perché funziona così: la guardia di finanza ha un deposito in cui sono presenti questi contatori, che ovviamente sono un numero finito, bisogna sperare che ce ne sia uno disponibile delle stesse dimensioni e sostituire i pezzi.
Tutti sono in comodato d’uso alle distillerie registrate e, mi dicono, il registro è cartaceo.
In realtà c’è qualcuno che è riuscito a far qualcosa a riguardo, Bruno Pilzer, dell’omonima distilleria e trentino dalla testa dura, è riuscito ad ottenere il permesso di ricostruire la meccanica interna del misuratore passando dallo stagno all’alluminio. Ci è riuscito perché ha saputo scovare una leva giuridica: “Mi chiedete di essere responsabile della sterilità del mio prodotto, non posso garantire che il vostro misuratore non rilasci metalli dentro alla mia grappa”; così ha detto alla guardia di finanza e ha vinto. Nella pratica però lo ha fatto in un modo ancora più interessante: ha trovato gli schemi del misuratore in un manuale della Hoepli custodito all’università di Trento. Dunque, a rigor di logica, la tecnica di costruzione di un misuratore fiscale dovrebbe essere segreta, oppure ciascuno potrebbe manipolare il proprio per pagare meno tasse. Ma tant’è, se pensate di aprire una distilleria fatevi anche la tessera della biblioteca di Trento.
La paranoia dei sigilli
Nel sistema a deposito fiscale c’è un altro problema non trascurabile: la grappa prodotta non può essere mai assaggiata, perché l’impianto è sigillato dall’inizio alla fine. Ci vuole dunque un certo grado di esperienza per produrre qualcosa di buono.
Se può consolare, non siamo nemmeno i più paranoici: in Bulgaria hanno inventato dei sigilli con microchip, che segnalano immediatamente ogni tentativo di effrazione, in Belgio invece, in maniera più sadica, dentro al sigillo c’è un filo che dà la scossa se ci si azzarda a toccarlo.
E ancora: in Finlandia e in Svezia, non solo la produzione, ma anche il commercio al dettaglio sono gestiti in monopolio, il che significa che se vuoi comprare il tuo superalcolico puoi andare solo in una catena di negozi statali.
Gli anni 60 e il contrabbando
Per sapere cosa è successo in Italia negli anni 60, quando lo stato decise di dare una nuova stretta al contrabbando di alcolici, bisogna andare in Trentino, e soprattutto in Val Cembra, una lingua di terra poverissima tra le montagne che oggi conta la più alta concentrazione nazionale di distillerie di grappa e che fino agli anni 60 era terra di contrabbando. Praticamente ogni famiglia distillava la sua grappa, indigesta e sporca finché volete, ma fonte di calorie soprattutto negli anni di carestia dei raccolti. Se andate in Val Cembra ascolterete un milione di storie sulla grappa: dalle botti nascoste tra le vigne e segnalate col fil di ferro per sfuggire ai controlli della finanza ai rastrellamenti casa per casa fatti dalla guardia di finanza negli anni 60, quando dall’alto si decretò che bisognava far riemergere il sommerso alcolico, in tutti i sensi.
La gente di qui ha ancora una smorfia sulla faccia ricordando che in certi paesi al rastrellamento seguiva un concentramento nella piazza del paese di chi era stato scoperto contrabbandare, per il pubblico ludibrio prima della carcerazione, perché l’evasione sul monopolio fiscale è reato penale.
Oggi la Val Cembra ha fatto di questa storia un volano turistico, e c’è chi organizza perfino le passeggiate notturne nei boschi, sulla via dei contrabbandieri, portando nello zaino una bottiglietta di grappa, ovviamente regolarmente denunciata, che annaffierà le libagioni una volta arrivati a valle. Folklore discutibile a parte, oggi questo territorio ha un’altissima concentrazione di distillerie ed è diventata una zona tutto sommato benestante.
Negli stessi anni dei rastrellamenti infatti, nel 1960, nasce anche l’Istituto di tutela della grappa del Trentino, un organismo che mette a disposizione dei distillatori dei laboratori di analisi e ricerca per rendere la grappa più pulita. Pare infatti che moltissimi che abitavano in queste zone, impazzissero misteriosamente in vecchiaia, e l’ipotesi più accreditata è che, durante la vita, avessero ingerito troppo alcol metilico, un alcol tossico presente nelle grappe distillate male.
Perché l’accisa sugli alcolici pesa così tanto?
Le accise si calcolano sul prodotto appena distillato, solo che la grappa appena distillata non sa di niente e deve farsi almeno 6 mesi in acciaio. Ora, chiunque abbia visitato una distilleria scozzese in vacanza sa che il whisky che evapora dalle botti viene poeticamente definito angels’ share, la quota degli angeli, ma che è la croce dei distillatori che perdono molto prodotto da vendere.
Alle nostre temperature dopo un anno in botte di acciaio si perdono circa 10 litri ogni 250. Con le botti di legno la perdita quasi raddoppia. Tutta roba su cui si sono già pagate le tasse. Evidentemente chi può permetterselo, scarica questi costi sull’acquirente finale.
Come si aggira questo sistema?
Lo si può fare in malafede, invecchiando meno e aggiungendo caramello [fino al 2% è legale] e adesso il distillato bruno, invecchiato in botte, va parecchio di moda. Anche perché siamo tutti dimentichi o inconsapevoli del fatto che, negli anni 80, quando l’invecchiamento in botte non era così richiesto, i costi di un whisky invecchiato trent’anni si aggiravano introno ai 2 milioni di lire. Ora sicuramente la distribuzione su larga scala ha contribuito ad abbassare il prezzo medio, ma chi vuole un distillato vecchio deve essere disposto a spendere ben più del centinaio di euro che ci si aspetta oggi.
Poi ci sono i distillatori virtuosi, che hanno fatto di necessità virtù, diversificando la produzione per esempio. Avrete sicuramente notato che le distillerie italiane, un tempo monolitiche sulle acquaviti, hanno cominciato a produrre brandy, gin, amari peraltro di grandissima qualità [Schiavo, ad esempio, produce il bitter Gagliardo eletto nel 2019 ai World Liqueur Awards miglior bitter del mondo]. In questo modo si destagionalizza la produzione: la grappa infatti si distilla tra settembre e ottobre, dopo la vendemmia, e qualcosa in gennaio, con le vinacce dei passiti, il resto dell’anno è noia. Ma ci sono prodotti di distillazione che non hanno una stagionalità, e possono riempire “i buchi” durante l’anno e garantire un ulteriore guadagno. Inoltre, prodotti del genere permettono a un’azienda di accedere ai distributori fighi, quelli che portano i tuoi prodotti nei bar degli stellati.
L’altra soluzione è quella di invecchiare il prodotto dove se ne perde meno, Pilzer ad esempio si è fatto un magazzino in una caverna in montagna, Schiavo ha portato una parte della sua grappa ad Abeerdeen, in Scozia, e nel 2022 arriverà in Italia “Adriana, l’acquavite oltre il Vallo”, che, oltre al nome formidabile, sarà stata invecchiata tre anni nelle botti da whisky in Scozia; in entrambi questi casi il freddo e l’umidità funzionano quasi da sigillo sulla botte e permettono rese migliori e aromi che diversamente non si otterrebbero mai.
Fatta la legge, trovato l’inganno. O meglio, per fortuna, l’ingegno.
Photo courtesy Distilleria Schiavo e Distilleria Pilzer pagina Facebook