Del mercato del cacao ci interessa poco, a conti fatti, per quanto i packaging del cioccolato, tra le corsie del supermercato, siano più accattivanti con tutti quei richiami alle foreste verdeggianti e alle cabosse. Immagini carinissime, che però rispecchiano poco le etichette. Quelle, anzi, rispecchiano proprio poco: le leggiamo, ma ci dicono poco sulla provenienza del cacao: se siamo fortunati troviamo riferimenti circa il produttore e lo stabilimento di produzione del cioccolato, dettagli che sono riportati più facilmente sulle tavolette, meno sugli snack.
Ed è davvero paradossale che mentre per la carne – il cui consumo quotidiano ci viene richiesto di ridurre – facciamo battaglie per conoscere nome, luogo e data di nascita di ogni bovino, per il cioccolato e i suoi derivati – il cui consumo, seppur “emotivo”, è praticamente quotidiano e in crescita, complice anche il lockdown da Covid – la filiera ci interessa poco. La nostra tavoletta finisce nel carrello senza troppe domande, non tanto sulle fasi di lavorazione, perché ormai siamo esperti in fatto di fermentazione, tostatura, macinazione delle fave e temperaggio, quanto piuttosto su quanto accade prima, cioè sull’articolazione del mercato del cacao e sul suo funzionamento. Per capire come si arriva dalla piantagione al supermercato, passando per titoli di borsa, mercati finanziari, paesi produttori e grandi marchi acquirenti, per capire insomma come funziona il mercato del cacao, ci siamo fatti aiutare da Andrea Mecozzi, consulente e selezionatore di cacao, formatore per pasticceri e gelatieri, oltre che fondatore di Chocofair.
Siamo volutamente partiti da tavolette e snack della GDO e non da un prodotto artigianale perché, come spiega Mecozzi, il consumo mondiale di cioccolato pregiato/artigianale è pari allo 0,1% di quello complessivo: la fetta maggiore è occupata da snack e in seconda battuta da prodotti destinati alla pasticceria. Bisogna quindi abbandonare la dimensione di artigiani e piccoli produttori per guardare ai grandi gruppi e alle multinazionali. Una fotografia attendibile e aggiornata dei maggiori player del mercato si trova spulciando tra i dati dell’ICCO (International Cocoa Organization), la più importante organizzazione mondiale per il cacao, che raggruppa 28 paesi, di cui 10 esportatori e 18 importatori e che rappresenta il 75% della produzione mondiale di cacao e circa il 60% del consumo. Il mandato dell’ICCO è di favorire un’economia del cacao sostenibile e mantenere accettabili i prezzi alla produzione: obiettivi che spesso vedono contrapposti gli interessi dei paesi produttori e quelli degli importatori, giungendo di fatto ad una paralisi dell’organizzazione stessa. Come dicevamo, pochissimi sono i grandi nomi che occupano il mercato per quanto riguarda la vendita di dolciumi e che in alcuni casi sono in grado di coprire tutta la filiera: in ordine decrescente Mars, Ferrero, Mondelez, Meiji, Hershey, Nestlè, Lindt, Pladis, Ezaki, Orion. Per trovare il primo italiano dopo Ferrero si deve scorrere alle ultime 20 posizioni, con Icam. Analogamente poche sono le compagnie che si contendono la macinazione: sono quattro e da sole rappresentano il 50% delle macinazioni mondiali: Archer Daniels Midland, Cargill, Barry Callebaut (6 mld di euro di bilancio, solo per la divisione cioccolato), Nestlè.
Diversamente da quanto avviene per i piccoli soggetti (e per “piccoli” si intendono, per restare nell’ambito italiano, gli artigiani che più volte abbiamo ricordato) per i quali la filiera di approvvigionamento può prevedere accordi diretti con i produttori, l’acquisto del cacao da parte delle multinazionali passa attraverso il mercato borsistico, previo “accreditamento”.
La borsa e i futures
Delle tre principali varietà (stiamo semplificando: queste sono le tre varietà secondo il mercato, non secondo la genetica che invece calcola 10 famiglie e più di 1000 genetiche differenti) – criollo, forastero, trinitario – il prezzo cui ci si riferisce è quello del forastero. E’ bene fare una distinzione cacao “fisico” e cacao “virtuale”, quello trattato in borsa. Il prezzo del primo viene stabilito secondo quantità, qualità, periodo di consegna e destinazione della merce, ma è legato anche alle condizioni meteorologiche, alla situazione politica del paese produttore e ai dazi applicati.
Il prezzo del cacao virtuale, invece, viene contrattato sulle borse di Londra e New York (e, ovviamente varia ogni giorno: l’ICCO riporta quotidianamente i dati) e consiste in futures (cioè – per spiegarla un po’ come i fratelli Duke la spiegano a Billy Ray Valentine in “Una poltrona per due” – un contratto futures sul cacao è un impegno a fare o a prendere in consegna una quantità e una qualità specifiche di fave di cacao in un luogo e in un momento predeterminati in futuro. Tutti i termini del contratto sono standardizzati e stabiliti in anticipo). Sono tre i luoghi in cui è possibile scambiare i contratti futures sul cacao: ICE Futures US (New York), ICE Futures Europe (Londra) e CME Europe (Londra).
Prima del marzo 2015, i future erano quotati solo in sterline britanniche e in dollari USA. Tuttavia, poiché quasi la metà del cacao scambiato proviene dalla Costa d’Avorio, dal Ghana e dal Camerun (le cui valute sono ancorate all’euro) e un terzo della produzione mondiale di cacao viene elaborato all’interno della zona euro, sono stati introdotti nuovi contratti denominati in euro in Marzo 2015. Questi scambi organizzati forniscono le strutture e le piattaforme di trading che riuniscono acquirenti e venditori: tutte le offerte devono essere effettuate tramite la Clearing House della Borsa, che in pratica funge da acquirente per tutti i venditori e da venditore per tutti gli acquirenti.
I partecipanti al mercato dei futures rientrano in due categorie generali: trader commerciali (cioè hedger) e non commerciali (cioè speculatori). I primi cercano di evitare o ridurre una possibile perdita nel mercato cash effettuando operazioni di controbilanciamento nel mercato dei futures. I secondi non producono o utilizzano una merce, ma rischiano il proprio capitale negoziando futures su quella merce nella speranza di realizzare un profitto sulle variazioni di prezzo.
Quando si ritira concretamente il corrispettivo in fave, la borsa paga agli acquirenti la differenza se il prezzo è aumentato o viceversa se è sceso. Giunte sul mercato di esportazione le fave di cacao vengono ulteriormente contrattate tra le compagnie di commercializzazione da un lato e dealer (cioè commerciante, mercante o venditore che acquista in proprio il cacao per poi rivenderlo) e broker (acquista cacao per conto dei clienti e addebita la commissione) dall’altro.
Paesi produttori, regole di vendita e guerre commerciali silenziose
Il cacao viene prodotto in Africa, America Latina e Asia. Tuttavia, oltre il 60% della produzione mondiale arriva dalla Costa d’Avorio (40%) e dal Ghana (20%) che sono rispettivamente il primo e secondo produttore, mentre l’America Latina si attesta attorno al 15%: il resto è in mano ai paesi dell’Africa orientale e ai paesi asiatici. Il commercio dei semi di cacao nei paesi d’origine varia in base al tipo di mercato presente: in alcuni casi il mercato è completamente libero, come nel Centro e Sud America (con l’eccezione del Venezuela), mentre in altri (i paesi africani) viene controllato dal governo. Ci sono poi forme intermedie, che prevedono interventi del governo più o meno evidenti, nella vendita e nella fissazione del prezzo.
E’ quindi a Costa d’Avorio e Ghana, i maggiori produttori, che bisogna guardare per capire non solo le dinamiche di vendita, ma anche i rapporti commerciali con i grandi player del mercato. In entrambi i paesi le aziende produttrici, di dimensioni medio-piccole, sono subordinate all’intervento e al controllo di due organismi, rispettivamente il Conseil du Café-Cacao e il Ghana Cocoa Board: per poter vendere, quindi, esse devono dichiarare la produzione e in base all’andamento dei future di Londra e NY possono partecipare ad un’asta trimestrale facendo un’offerta. Solo in base all’assenso quotidiano dei due soggetti parastatali, i produttori hanno il via libera e possono procedere alla vendita all’interno dei trimestri in cui hanno vinto l’asta: se non riescono ad esportare nel trimestre per cui hanno vinto, perdono la licenza e il loro cacao resta bloccato in patria e di solito svenduto sotto prezzo agli intermediari libanesi.
Se le stime relative al mercato globale del cacao parlano di 124 miliardi di dollari, di questi solo una minima parte (circa il 5%) vanno a chi produce la materia prima, mentre l’80% circa dei profitti resta nelle mani di chi si occupa di trasformazione delle fave e distribuzione di prodotti lavorati: nel tentativo quindi di ridurre la povertà degli agricoltori (Secondo la Banca Mondiale, il 55% dei contadini ivoriani vive con circa € 1,15 al giorno) e di metterli al riparo dalla volatilità del mercato, Ghana e Costa d’Avorio hanno concordato accordi iniziali per la vendita di cacao con un premio sul reddito di sussistenza di $ 400 la tonnellata: si tratta in pratica di un differenziale di reddito vitale (LID) su tutte le vendite di cacao per la stagione 2020/21. Entrato in vigore lo scorso settembre, se inizialmente ha visto disponibili le grandi aziende (Cemoi, francese, è stata una delle prime a sottoscrivere e a rispettare l’accordo ed una delle poche, insieme alla italiana Domori, che investe in Costa d’Avorio quasi completamente sul cacao bio), di fronte ad un mercato reso incerto dalla pandemia e soprattutto di fronte alla prospettiva che i due paesi siano spinti a produrre un surplus abbassando così il prezzo, in un secondo momento i big del mercato hanno deciso di non pagare il premio previsto smettendo di comprare cacao dai due paesi.
Dove approvvigionarsi, quindi? Da una parte rivolgendosi al Sud America, dall’altra cominciando ad intaccare le riserve di cacao conservate al porto di Amsterdam, pari a circa 200-400 mila tonnellate di cacao, e che servono a mantenere stabile il prezzo del cacao nel mercato. La capitale dei Paesi Bassi è il più grande sistema portuale (Amsterdam-Rotterdam-Anversa) al mondo di cacao, con una movimentazione tra le 800mila e 1,2 milioni di tonnellate l’anno in incoming di cacao (circa il 25% della produzione mondiale): il motivo è legato sia alla posizione – strategica rispetto alla distribuzione in Europa – sia al clima, che consente di stoccare le fave anche per lungo tempo (le fave di cacao arrivano in Europa dopo i due raccolti: il principale tra dicembre e aprile e il secondo tra maggio e luglio). Hershey è stata la prima a comperare il cacao stoccato, seguita dagli altri player del mercato: la posizione di forza rispetto ai paesi africani non è legata solo ai bilanci miliardari dei grandi gruppi, ma anche al fatto che Ghana Costa d’Avorio non hanno magazzini di stoccaggio, non hanno impianti di trasformazione (né competenze industriali, anche se qualcosa, lentamente, sta cominciando a muoversi) e gli agricoltori hanno un flusso di cassa negativo.
Quanto dovrebbe costare 1 kg di cacao
Di fronte quindi ad una sovrapproduzione, le ipotesi plausibili per calmierare il prezzo sono – e confidiamo non sia questo il caso – un conflitto (come è avvenuto in Costa d’Avorio nel 2011) oppure una rinegoziazione: è probabile cioè che il prezzo sarà abbassato passando indicativamente da 2,40euro/kg euro a 1,90/euro kg.
Le cifre – indicative – che abbiamo riportato (secondo i dati di Uncommon cacao, il prezzo all’azienda agricola, l’anno scorso era di 515 cedi ghanesi, pari a circa 1,04 euro), è bene precisarlo, sono pagate al porto, ciò significa che il prezzo pagato all’agricoltore è inferiore. Per produrre un kg di cacao sostenibile (prodotto cioè senza sfruttamento della forza lavoro né deforestazione) il prezzo pagato all’agricoltore dovrebbe essere almeno pari a 1,90 euro, in caso contrario la coltivazione e la successiva raccolta non sono convenienti, con conseguente abbandono delle piantagioni. Ben diverso lo scenario se dall’Africa ci si sposa in America Latina: in Colombia, ad esempio (dove si producono 22 mila tonnellate di cacao ma se ne consumano 27 mila) non si scende al di sotto dei 3 dollari, mentre i criollo raggiungono anche i 7/8 dollari. La differenza rispetto al prezzo del cacao africano è dovuta principalmente a due elementi. Il primo è legato alla qualità del cacao dell’Africa e al pregiudizio che lo accompagna, il secondo dipende dalla moda del bean to bar e dal conseguente ingresso di paesi come Stati Uniti e Russia nell’industria della lavorazione.
E’ opinione comune, quando si parla di qualità, sottolineare come a differenza di quello sudamericano (citando il Venezuela come il paese da cui provengono le migliori varietà del mondo), considerato raffinato, elegante e ricco di sfumature (“più buono”, per i non addetti ai lavori), il cacao africano sia considerato meno fine, inferiore (“meno buono”): vale la pena di correggere una volta per tutte un postulato valido quanto la dicotomia – ormai definitivamente smentita – tra vino rosso e sentori di frutti rossi e bacche, e vino bianco e relativi sentori di frutta gialla. Costa d’Avorio e Ghana sono sempre stati spinti ad aumentare la produzione (rivolta appunto alle multinazionali), per tenere basso il prezzo, non a migliorarne la qualità: se l’unico parametro di riferimento rimane appunto il peso, non ci sarà alcun interesse nell’investire in formazione e sviluppo di competente e tecniche per rendere il cacao africano in grado di competere con i cacao sudamericani e asiatici.
Come sono cambiati i consumi
Altro fattore di differenza nel prezzo, come dicevamo, è l’avvento del bean to bar e il conseguente ingresso di paesi come Stati Uniti e Russia in un mercato che fino ad una quindicina di anni fa vedeva protagonisti Italia e Francia: il moltiplicarsi di artigiani che lavorano dal seme alla tavoletta (e qui si potrebbe sfatare un altro mito: bean to bar non è sinonimo di qualità. Se non si è padroni della tecnica e non si conosce la materia prima, anche il cacao migliore può trasformarsi in una pessima tavoletta) e la conseguente richiesta di cacao pregiati, da parte di America e Russia, ha comportato un aumento del prezzo, anche fino al 50%.
Complessivamente il mercato mondiale vede una trasformazione delle aree di consumo: se da un lato si assiste alla flessione in Europa Occidentale ed una sostanziale stabilità per l’America del Nord, ben diversa è la situazione in Sud America, Medio Oriente, Australia, Asia. Cina e India, in particolare si avviano a raggiungere la vetta dei paesi a maggior consumo, e non solo di cioccolato industriale. Segno che noi europei dobbiamo smetterla di pensare di essere più raffinati in fatto di gusto e cominciare a renderci conto che già da un po’ il primato in fatto di artigianalità ci sta scappando di mano.