Pasqua, andiamo, è tempo di colombe. (Vabbè, ormai l’ho scritto.) E ne vediamo di tutti i colori, sugli scaffali dei supermercati, nelle vetrine dei pasticcieri o dei panificatori, ma soprattutto online. Non so a voi, ma a me ormai sui social un post su due è una sponsorizzata con delle colombe da paura: alveoli che sembrano trafori alpini, farciture gourmet che vanno dal dattero dell’oasi di Siwa alle melanzane fritte, confezioni deluxe che costeranno più del contenuto. Di recente abbiamo parlato di un estremo nell’ampio ventaglio offerto dai grandi lievitati pasquali: le colombe private label che nascondono produzioni industriali. Ora ci occupiamo dell’altro polo: anzi no, non precisamente. Non parliamo delle colombe gourmet, delle colombe ideali, delle colombe perfette.
Ma di quando qualcosa va storto: della colomba imperfetta.
Un errore, ragazzi, può capitare a chiunque. Soprattutto quando si tratta di grandi lievitati, i quali richiedono preparazioni così lunghe e complesse che una lieve imprecisione in uno solo dei tanti passaggi è in grado di compromettere il tutto. Dalla messa in forza del lievito madre (bagnetto in acqua e zucchero, seguito da tre rinfreschi consecutivi a orari e temperature prestabilite) al primo impasto, dalla preparazione degli ingredienti base, ognuno dei quali richiede attenzioni particolari a livello di gestione e manualità (avete mai separato 40 chili di tuorli dagli albumi, o cubettato un quintale di bucce d’arancia per candirle?), all’idratazione del secondo impasto, dalla pirlatura al controllo della seconda lievitazione, per finire con la glassatura e la cottura, che sembra una fesseria ma può rovinare un lievitato perfetto.
Anzi per non finire: capovolgimento e raffreddamento sono fondamentali per un dolce così delicato e soffice (lo sapete che dalla formatura al prodotto finale, tra lievitazione e crescita in forno, la colomba e il panettone quadruplicano o persino quintuplicano il proprio volume?). E poi c’è l’imbustamento, che se il prodotto non ha conservanti, deve essere fatto al momento e nel modo giusto per bilanciare tra il rischio di ammuffimento e quello di secchezza. Infine, se come spesso capita la colomba viene spedita, la scatola dev’essere non solo bella ma anche funzionale: uno sballottamento nel camion, una curva troppo azzardata, e addio perfezione.
Un errore, dicevamo, può capitare a chiunque. E infatti, capita: tra me e le persone che conosco – gastrofissati, ok, gente che si fa arrivare un panettone da un capo all’altro d’Italia – ne ho visti parecchi negli ultimi anni. Non parliamo dei gusti e degli stili: ci sono fior di panettieri che fanno da anni un grande lievitato che a molti non dice niente, ma loro vanno avanti imperterriti; si vede che è il prodotto che hanno in mente. Intendo errori oggettivi, come un buco visto dentro una colomba, che neanche l’americano Roy: un effetto non voluto, un chiaro difetto di formatura (pirlatura), gas che restano intrappolati nell’impasto senza distribuirsi in modo uniforme come dovrebbero.
Ecco, un’altra fregatura nei lievitati è questa: finché non li apri, non sai come sono venuti, ma se li apri per vederli, non puoi più venderli. È una versione gastronomica del paradosso di Schrödinger, con l’alveolo al posto del gatto.
Ci sono anche difetti visibili, eh, magari minori ma comunque obiettivamente indiscutibili: uno, per esempio, che noto sempre più spesso, è che il lievitato non riempie il pirottino, che i lati non sono attaccati al bordo dello stampo, dove invece s’insinua un leggero ma fastidioso vuoto. Sarà per il mio passato da lievitista wannabe, ma io un errore del genere non me lo perdono mai, perché è la spia di una lievitazione non sufficiente: un pane piccolo e pesante si traduce in una mollica più densa, che rischia il crudo. Tanto che a volte il trucco che i panettieri usano è quello di mettere un po’ più di pasta nello stampo – tipo 8 etti nella forma da 750 grammi – per far apparire più esuberante una colomba che è solo più pesante. Comunque, ultimamente invece vedo pasticcieri serenissimi che mandano in giro panettoni bassini e compatti, e che addirittura pubblicano sui social foto di lievitati campioni del mondo, dove visibilmente il bordo del pirottino balla nel vuoto.
Un errore, quindi, può capitare. Ma cosa succede, quando capita? È questo il problema. Nella maggior parte dei casi, l’artigiano ribatte alle osservazioni colpo su colpo, fino a difendere l’indifendibile. Succede una cosa strana: più il nome in ballo è prestigioso – perché ormai è invalso quest’uso, che i grandi chef, anche quelli che non hanno mai impastato una piada, devono fare la linea di grandi lievitati – e più alto è il prezzo, maggiore dovrebbe essere la qualità del prodotto finale, maggiore il rispetto per il cliente, e maggiore anche l’ansia di tutelare il proprio nome.
E invece.
Ho visto chef stellati prendersela con l’acquirente che dopo aver pagato 40 euro più spedizione per un prodotto ammaccato, ha osato pubblicare la foto su Facebook invece di chiamare l’assistenza (e se era un regalo? Poi, ho visto anche panettoni spediti di nuovo dall’assistenza, con gli stessi difetti: allora non è un caso). Ho visto pasticcieri pluridecorati arrampicarsi sugli specchi per spiegare che la lievitazione imperfetta è dovuta al burro in quantità ingenti e quindi non è un difetto ma una nota di merito (e grazie al cavolo: la ricetta del panettone prevede il 60% di burro, ma la bravura dell’artigiano sta nel farlo lievitare nonostante tutto quel grasso, non nell’usarlo come paravento).
E allora, che fare quando c’è una colomba imperfetta? Basterebbe scusarsi, invece di prendersela con il pubblico di merda; basterebbe dire: oh, pardon, questa mi è uscita male. Basterebbe, ancora più a monte, creare un filtro, un minimo di controllo qualità al momento della spedizione, ed evitare di mandare in giro prodotti che non fanno buona pubblicità al proprio brand: d’altra parte nella vetrina di una pasticceria se una torta non è spettacolare, non si mette. Non è che, amici, state intravedendo un inaspettato vantaggio nell’e-commerce?
Poi, beh, può essere che sono io che pretendo troppo. Può essere che sono diventato schiavo della trappola capitalista, del milanesissimo mantra lavoro-guadagno-spendo-pretendo. O forse no. Perché questi comportamenti non sono la norma. Perché un’altra strada è possibile. Chiunque di voi abbia messo il naso in una produzione alimentare, in un laboratorio più o meno artigianale, sa quanto spesso si senta la frase: “vabbè, questo è uscito male, ce lo mangiamo noi” o “portatevelo a casa”. Poi c’è un’altra soluzione, e ce l’ho sotto casa. Quella de La Torinese.
E badate che per La Torinese (soggetto di cronaca proprio oggi, per via del via libera definitivo all’acquisizione da parte di Dolciaria Borsari) intendo lo spaccio di lievitati dell’azienda di medie dimensioni della porta accanto, della vostra provincia, dell’area industriale della vostra città.
La Torinese, per esempio, azienda nata nel 1932 e quasi subito specializzatasi in grandi lievitati, che all’epoca stavano prendendo la loro forma attuale. Dal 1959 è nella sede odierna, non lontanissima dal centro città ma in una zona assolutamente poco hype. Torino, si sa, i suoi gioielli ama nasconderli; anche se La Torinese è finita nel mirino di Borsari e dal 2018 è parte dell’industria dolciaria veneta, pur conservando autonomia di produzione e marchio. Quello della Torinese è un negozio strano: non è la piccola pasticceria, non è lo spartano shop accessorio allo stabilimento industriale; è una via di mezzo.
Come una via di mezzo è il prodotto: non posso dire che sia il miglior panettone che io abbia mai mangiato, ma è infinitamente superiore alle produzioni da supermercato. Un ottimo lievitato di livello medio, senza pretese ma senza tradimenti. Ma quello che qui rileva è che loro fanno una cosa che pensavo fosse abbastanza comune, ma che in effetti prima di venire a Torino non avevo visto spesso, e che non ho incontrato molto altrove. Mettono in vendita i prodotti difettati a un prezzo minore, molto minore. C’è tutta un’area del negozio che sotto Natale e sotto Pasqua si riempie di panettoni e colombe incartate in semplici sacchetti di plastica trasparente, e venduti a meno di 5 euro al chilo. Quando il lievitato base è messo a 15 euro, e quelli con farciture particolari dai 18 in su (prezzo medio, come si diceva, tra i 5 del super e i 40 dello chef).
“Colombe di imperfetto aspetto”, recita il cartello. Ed è giusto: non ci sono difetti di sostanza, lievitati che non hanno lievitato o glasse bruciate. Quelli, se capitano, andranno buttati o consumati in casa. Diciamo che se non dovete fare un regalo, se non volete fare bella figura con gli ospiti (ma quali ospiti?) sulla tavola di Pasqua, quella colomba è perfetta.
Per essere sicuro di ciò che stavo per scrivere, sono andato a controllare: ed era ancora meglio di come ricordassi. Come potete vedere nelle foto (e scusate per la pessima qualità delle foto, come sempre sono fatte di straforo: anche questa non è una marchetta), le colombe imperfette presentano difetti talmente minimi da essere, in certi casi, invisibili. Un centimetro quadrato non glassato, la copertura leggermente crepata, un lieve sbilanciamento nella forma. Tutte cose che non avrebbero suscitato la minima meraviglia, se fossero finite nella confezione normale che ne cela l’aspetto. In certi altri casi il difetto è più macroscopico, ma vi assicuro ininfluente all’assaggio. In tutti questi casi, il prodotto non ha passato il rigido controllo qualità prima di finire nel packaging standard. Quello che mi preme sottolineare è che La Torinese adotta questo modello da sempre, o almeno da quando la conosco, 15 anni e più, nonostante non abbia una fama stellare da difendere, ma soltanto una solida reputazione locale (e neanche così diffusa, se chiedo ai miei pur gastrofissati colleghi).
Una pratica commerciale, una policy aziendale che potrebbe, che dovrebbe essere la norma. Andatelo a dire agli chef.