Il destino del cibo non è nel biologico e neppure nel vegetarianesimo: salveremo il mondo mangiando clean food, ammesso che venga comunicato nel modo giusto. Ecco cos’è ciò che potrebbe rappresentare la soluzione alla non sostenibilità del nostro pianeta.
Parafrasando l’autore di fantascienza William Gibson il futuro è già qui, solo che è distribuito male – e un ottimo modo per rendercene conto è sfogliare Il destino del cibo di Agnese Codignola, un libro appena uscito per Feltrinelli che ci mostra per l’appunto come il futuro sia già arrivato e in un certo senso aspetti solo di venire distribuito. Parlando di futuro (gastronomico) non alludo solamente al tipo di cibi che mangeremo nei prossimi decenni e quindi anche alla loro produzione, ma naturalmente anche al loro impatto ambientale, un tema decisivo per l’esistenza stessa della vita umana sulla terra.
Sin dalle prime righe di questo volume così ricco di sorprese Codignola ci ricorda che nel 2030 saremo dieci miliardi e che il nostro impatto sul pianeta è già insostenibile ora, considerando la richiesta di risorse che il consumo generalizzato di carne impone agli ecosistemi:
Secondo la FAO nel mondo, in questo momento, vivono circa ventotto miliardi di animali da carne tra bovini, suini, ovini e pollami. Nella loro infelice esistenza, questi animali emettono circa il 15% di tutto il metano e il 30% di tutto il biossido d’azoto e in totale poco meno della metà dei gas serra che finiscono in atmosfera, consumano un terzo delle terre emerse e poco meno del 10% di tutta l’acqua disponibile, nonché l’80% degli antibiotici prodotti, lasciando come eredità la stratosferica cifra di quattro miliardi di tonnellate di letami all’anno, impossibili da smaltire o riutilizzare interamente.
La soluzione non è il vegetarianesimo, né il cibo bio
La soluzione per consentire a così tante persone di mangiare in modo sostenibile e senza impoverire i terreni in maniera irreversibile non è, come qualcuno è portato a pensare, il vegetarianismo (anche se al momento consumiamo troppa carne, soprattutto rossa), bensì consiste in una varia e profonda combinazione di nuove tecniche per la produzione di tutti i cibi e, anche, nella scoperta di un set di nuovi alimenti che al momento (almeno in occidente) ignoriamo, e che invece si riveleranno risorse fondamentali per il fabbisogno nutrizionale mondiale.
Un’altra osservazione che per qualcuno può essere sorprendente è che la soluzione a dilemmi di questa scala non passa per gli allevamenti biologici – eccellenti in termini di qualità ma naturalmente poco produttivi e destinati a un consumo elitario – concentrandosi diversamente sulle tecnologie applicate alla produzione del cibo. In realtà la stessa agricoltura è dalla sua invenzione una tecnologia, così come rispondono a un criterio di ottimizzazione produttiva le specie di piante selezionate per le colture in secoli di incroci – che altro non sono che mutazioni genetiche – il che, nota Codignola, è particolarmente paradossale considerando come oggi sia invece universalmente osteggiato il principio stesso di intervenire sulla sequenza genetica delle colture.
I problemi legati al cibo di domani sembrano infatti dipendere soprattutto da burocrazia e legislazione (che non sanno come inquadrare alcune novità che sarebbero già pronte per entrare sul mercato come produzioni industriali, come per esempio le carni coltivate) e dal marketing, su cui si combatteranno campagne campali.
Tutto ruota attorno al concetto di Clean food, ovvero – nelle parole di Codignola – “un cibo giusto perché frutto di quattro tipi di rispetto: per il pianeta, per la salute umana, per i lavoratori e per gli animali”, caratteristiche rispettate ad esempio proprio dalla carne coltivata in laboratorio e che in aziende come la Memphis Meat di Uma Valeti, Nicholas Genovese e Will Clem (e nella quale hanno investito Bill Gates, Richard Branson, il proprietario di Virgin America e Kimbal Musk, fratello di Elon), sta raggiungendo standard qualitativi notevoli, per la quale non soffre alcun animale (ovviamente), che richiede una frazione dell’acqua necessaria per produrre analoghe quantità di carni bovine e per cui, naturalmente, non sono necessari antibiotici.
La sfida sarà comunicare al pubblico – possibilmente attraverso una grammatica concordata con le istituzioni ed evidente sin dalle etichette – la novità nel modo giusto: la carne coltivata è Clean food e sarà decisivo chiamarla nel modo giusto, non per esempio come pretenderebbero gli allevatori tradizionali Frankenburger (il riferimento, qualora non fosse abbastanza chiaro, è a Frankenstein).
Che del resto sia arrivato il tempo di fare qualcosa è talmente evidente che inviti decisi in tal senso arrivano ormai anche dai più impietosi degli ambienti finanziari:
Per capire qual è la posta in gioco, basti pensare che a inizio febbraio 2019 gli ottanta investitori principali degli Stati Uniti, che insieme gestiscono la somma per me inimmaginabile di 6,5 trilioni di dollari, hanno preso carta e penna e scritto ai sei principali produttori di carne da fast food (tra i quali ovviamente McDonald’s) spiegando loro che così non si può andare avanti, e che se desiderano vedere ancora una parte di quei soldi investita nel loro business devono iniziare a cambiare tutto e a mostrare un impegno simile a quello che, sia pure in modo stentato e disomogeneo, si sono assunti altri settori altrettanto responsabili del cambiamento climatico, come quello energetico.
E naturalmente le innovazioni tecnologiche non riguardano solo le carni, Codignola mostra una casistica entusiasmante e fittissima che va dalle chips di meduse (uno dei prossimi super-food), alle alghe e ai molluschi di Bren Smith e della sua GreenWave; alle coltivazioni idroponiche sommerse come Nemo’s Garden di Sergio Gamberini a Savona; al clean fish di Finless Food (paradossalmente più semplice da realizzare della carne, come più semplice è anche produrre un fegato di una bistecca, il che renderà possibile molto presto disporre di foie gras cruelty free); fino ad arrivare alle stalle galleggianti di Floating Farm Dairy; così come alle farine di grilli e presto di altri insetti (già commercializzate e apprezzate in Finlandia); spingendosi addirittura fino al Sahara Forest Project, un piano di serre che rende possibile la rivitalizzazione di terreni desertici.
Tra tutti il risultato che più mi ha colpito è stato forse quello delle fattorie verticali Plenty Vertical Farm, messe a punto a Montain View, in California, il cui piano di sviluppo prevede installazioni di impianti nelle periferie delle maggiori metropoli mondiali e che consentono una resa straordinaria:
“Quanto alla resa, due numeri aiutano a capire di che cosa si stia parlando: 350 e 1%. Un ettaro di terreno occupato da uno stabilimento rende trecentocinquanta volte di più dello stesso ettaro coltivato tradizionalmente (contro le centotrenta ottenute da altri impianti idroponici che non hanno i pali ma coltivano su vassoi orizzontali). E lo fa utilizzando l’1% di acqua”.
Con Il destino del cibo Agnese Codignola (il cui ultimo titolo in libreria è stato LSD, uscito per Utet – in una convergenza di interessi che ci consente di considerarla un po’ come la Michael Pollan italiana) ci mostra in modo efficace e comprensibile cosa mangeremo domani dandoci anche una inattesa percezione di speranza: il Clean food può fare molto per salvare il pianeta e grazie a questo libro possiamo cominciare a saperne qualcosa in più.