Ve li ricordate i fratelli Mast, alias Rick e Michael Mast, due giovanotti rampanti dello Iowa anacronisticamente barbuti che hanno riconvertito una fabbrica dismessa nell’avamposto modaiolo di Williamsburg, a Brooklyn, in un impero hipster del cioccolato artigianale di risonanza planetaria?
Peccato che nelle realtà rielaborassero un preparato industriale (cioccolato da copertura Valrhona), dandogli la forma di setose tavolette che vendevano impacchettate dentro carte di lusso dal design accattivante a 10 dollari l’una.
Un vero capolavoro di marketing , ma il resto era finto. Finta la sapienza nel trattare il cacao, finti gli ingredienti delle tavolette, finte, forse, persino le barbe.
C0s’abbiamo imparato dalla disavventura dei fratelli Mast?
Parliamo di prezzi.
Per comprare una tavoletta di cioccolato da 100 grammi nei supermercati spendiamo in media dai 3 ai 7 euro. Una tavoletta di cioccolato artigianale dello stesso peso, e con la medesima percentuale di cacao, diciamo del 70%, può costare fino a 18 euro.
Cosa riflette questa differenza di prezzi?
I reali costi di produzione, sostengono i produttori di cioccolato artigianale, incluso pagare un prezzo equo alle aziende a conduzione familiare o alle piccole cooperative gestite in modo sostenibile che vendono le fave di cacao.
E anche fare provvista delle migliori fave di cacao; perfezionare le fasi di tostatura e macinazione; creare blend verosimili con le fave di cacao crude; trasformarli in un prodotto finito ricco, sensuale e complesso.
In altre parole: non usare semilavorati industriali ma curare ogni passaggio del processo produttivo.
I cioccolatieri artigianali offrono una filiera corta, diretta e trasparente. Quella che stiamo imparando a chiamare, con un’espressione oggi molto di moda: “from bean to bar“.
Tranne quando non lo fanno.
Come detto il premio “Grande Truffa del Cioccolato Artigianale” va ai Mast Brothers.
Inevitabilmente, dopo lo scandalo che li ha coinvolti, la stampa internazionale si è affannata a testare le loro tavolette.
Com’è andata?
Nel test del Guardian le tavolette Mast –al cioccolato fondente, alle mandorle e la più controversa, quella al latte di capra— sono risultate “gessose e amare“.
Secondo il quotidiano inglese il cioccolato alle mandorle ha sì il sapore delle fave di cacao, però dei gusci. Forse non tutto è andato come doveva durante la macinazione.
La tavoletta al latte di capra ha il “sentore di calzetto sudato” che i cultori dei formaggi puzzoni apprezzano tanto, peccato non fosse per niente quello che il degustatore gradiva in una tavoletta di cioccolato.
Per il Guardian è chiaro che un sacco di gente compra tavolette di cioccolato da 10 dollari proprio perché costano 10 dollari.
“Compriamo articoli di lusso confezionati in modo elegante per il gusto di comprare articoli di lusso confezionati in modo elegante. Questo è quanto. E questo è stupido. Siamo noi gli stupidi“.
La tavoletta di cioccolato al latte di capra ha dato problemi anche nel test dell’Huffington Post:
“Sembra di mangiare un formaggio erborinato. Un sapore grossolano, esageratemente terroso“.
Pete Wells, critico gastronomico del New York Times, ha trovato invece la tavoletta al cioccolato fondente “molto regolare, con note accattivanti di buccia d’arancia e limone“.
La vicenda Mast Brothers ci permette di sfatare un altro mito legato al cioccolato artigianale.
Tentati dal marketing a volte restiamo impigliati nelle parole, pensate a espressioni come “monorigine” o “grand cru“. In realtà non c’è nulla di sbagliato nel miscelare fave di cacao provenienti da regioni diverse o di varietà differenti.
Non dobbiamo assumere che il risultato sia per forza un’accozzaglia anonima e omogeneizzata.
La pratica di aggregare fave di cacao diverse in una miscela unica è molto antica, addirittura pre-colombiana. E fin dall’inizio si è fondata sul riconoscimento di un fatto: la giusta combinazione di cultivar differenti produce un effetto complessivo superiore della somma delle singole parti.
Ma per raggiungere il pieno potenziale si devono rispettare le esigenze particolari di ogni varietà, per esempio la temperatura ideale della tostatura.
Inoltre la tradizionale classificazione delle fave di cacao in soli tre gruppi — Criollo (considerato il migliore), Forastero (di qualità inferiore) e Trinitario (ibrido di Criollo e Forastero), è un lascito del periodo coloniale che nell’epoca della mappatura del genoma risulta semplicistica se non fuorviante.
Va da sé che l’approccio monorigine funziona benissimo quando il cacao è eccezionalmente buono e ha ricevuto un buon trattamento dopo il raccolto. Ma se le fave di cacao sono mediocri all’origine nessuna dicitura sulla varietà e la provenienza le farà diventare migliori.
Quali sono allora le marche di cioccolato artigianale che valgono il prezzo?
Ve ne abbiamo consigliate molte prendendo spunto da “The Reference Standard” la splendida guida di Georg Bernardini, assaggiatore professionista che nel 2015 ha consumato 70 chili di cioccolato (4200 cioccolati di 550 marchi provenienti da 70 paesi diversi).
Abbiamo anche noi sottoposto a test, anzi a “Giudizio Universale” le migliori marche artigianali nostrane.
Buoni suggerimenti arrivano anche dalla rivista americana New York Magazine.
Patric, Fruition, Cacaosuyo e l’italiano Domori sono nomi ricorrenti.
E sebbene meno hispter degli incarti dei Mast Brothers, hanno anche confezioni bellissime.
[Crediti | Link: Guardian, Huffington Post, New York Magazine, Dissapore, immagini: Vogue]