C’è un curioso meccanismo per il quale prodotti della cucina popolare e contadina, che per secoli hanno sfamato intere generazioni, in questa nostra era dell’opulenza sono diventati prelibatezze di nicchia. È il caso delle chiocciole, les escargots francesi, volgarmente dette lumache (ma la lumaca a onor del vero è quella senza guscio).
Amatissime al Sud e in diverse zone del Nord Italia, per alcuni restano una stravaganza gastronomica, per altri sono una golosa consuetudine. E molti ancora oggi le collegano a una celebre battuta cinematografica, quello “str***a lumachina” esclamato da Julia Roberts durante un’elegante cena placée in compagnia di Richard Gere (per chi non lo sapesse, il film era Pretty Woman).
Dalla raccolta all’allevamento
Prima di approdare sulle tavole più raffinate, le chiocciole sono state ingrediente umile ma prezioso, proteine a costo zero da raccogliere prendendo due piccioni con una fava: evitare che divorassero campi e orti (sono voracissime) e mettere in tavola una cena sostanziosa.
Oggi, la raccolta delle lumache è solo amatoriale, almeno in Italia dove non è possibile commercializzare chiocciole “selvatiche” nostrane, ma esclusivamente quelle allevate.
Sfatando il mito che “selvaggio è meglio”, è ovvio che c’è allevamento e allevamento. Il fiore all’occhiello della produzione italiana è quello che segue il Metodo Cherasco, dal nome della cittadina piemontese che ha fatto di questa attività il cuore della sua economia. Creando un circuito virtuoso in cui della chiocciola, come del maiale, non si butta via niente.
Visionario propugnatore del metodo è Simone Sampò che, con il suo Istituto Internazionale di Elicicoltura, ha messo a punto un disciplinare cui aderiscono 700 allevamenti sui poco più di mille presenti nel nostro Paese.
Fanno capo all’Istituto l’Associazione degli allevatori, l’Accademia che si occupa di formazione e diversi marchi commerciali legati al food, alle tecnologie produttive e anche alla cosmetica e alla farmaceutica (di cui ti parlo tra poco).
Il metodo piemontese
Tornando ai produttori nazionali, se un migliaio sembrano tanti, tuttavia soddisfano appena il 20% della richiesta interna. Per il restante 80%, il mercato nostrano dipende dalle importazioni.
C’è da dire che, in realtà come Turchia, Marocco, Polonia, Repubblica Ceca, Lituania, Ucraina, la produzione si basa ancora in gran parte sulla raccolta e/o sull’allevamento intensivo.
Due tecniche che possono compromettere la qualità: perché la chiocciola raccolta può essere cresciuta su terreni o con cibi contaminati, mentre gli allevamenti intensivi hanno i medesimi limiti di quelli di altre specie animali, dall’utilizzo di mangimi industriali al “sovraffollamento”.
Al contrario, il metodo piemontese alleva in recinti all’aria aperta con mangimi vegetali autoprodotti, dando così anche un input all’agricoltura locale e aggiungendo un tassello all’economia circolare o – come la definisce Sampò – elicoidale che ruota intorno a questi animaletti.
Questione di gusto
Dal punto di vista del prodotto finale, le carni delle chiocciole di Cherasco risentono in maniera positiva dell’alimentazione acquisendo sfumature di sapore particolari a seconda degli ortaggi e della frutta dati agli animali: zucche, zucchine trombette, biete, mele, meloni, girasoli (di cui divorano tutto fuorché i semi!) azzerano le note di terra e regalano dolcezza e gusto rotondo.
Il sistema è esportato in molti paesi tra cui Francia, Croazia, Germania, Spagna, Ungheria, Tunisia, Libano e Giordania, adottato da decine di allevatori.
Come si comprano
Purtroppo, sull’etichetta non è obbligatorio indicare altro che una generica origine Italia/UE/Extra UE, e non è prevista la segnalazione di provenienza da allevamento o da raccolta. Così, restano garanzia di qualità la produzione nazionale e, naturalmente, quella certificata Metodo Cherasco.
Le chiocciole fresche, ancora nel guscio, al Centro e al Sud si acquistano dall’ortolano, mentre nel Settentrione si comprano in pescheria.
Il prezzo al chilo è in genere compreso fra 13 e 15-16 euro circa.
Come i molluschi marini, sono vendute vive ma in una condizione definita di “epifragmatura”, simile alla letargia, protette all’interno del guscio da una patina sottile che chiude la bocca conchigliare. E che permette alle chiocciole di avere una shelf life molto lunga, fino a 60 giorni.
Le più vendute al Nord, dove si acquistano di preferenza sgusciate e precotte, sono le grandi Helix Pomatia Alpina ed Helix Aspersa Maxima, Typica e Muller (in ordine di dimensioni), mentre al Sud si prediligono quelle più piccole, ancora nel guscio: le Eeobania Vermiculata (dette Rigatella), le Otala Lactea, le Theba Pisana, le Helix Aperta.
Ma, come sottolinea Sampò, c’è una grande varietà di nomi locali con cui vengono chiamate nelle diverse regioni.
In gastronomia e nella grande distribuzione si acquistano, anche surgelate, quelle precotte che possono essere ancora con il guscio oppure sgusciate, da rifinire a piacere. E naturalmente se ne trovano di variamente ricettate, in pratica solo da scaldare.
Una piccola chicca è, infine, il cosiddetto “caviale di lumaca”, le candide uova, dal gusto neutro ma piuttosto decorative.
Non solo in tavola
Non si può parlare di chiocciole come prelibata specialità gastronomica senza accennare all’utilizzo, in farmacia e cosmetica, della bava di lumaca.
Gli animaletti la producono per aiutarsi a scivolare su terreni e vegetali e, al contempo, per rinforzare e rigenerare i tessuti danneggiati dall’attrito grazie alle sostanze nutrienti, cicatrizzanti e antiossidanti di cui è composta.
Analogamente, la bava di lumaca trova impiego nella formulazione di farmaci come gastroprotettivi e sciroppi per la gola, ma anche di creme per il viso, prodotti per capelli, trattamenti estetici.
Chiudo questa breve parentesi con una curiosità: il Metodo Cherasco utilizza un sistema di estrazione cruelty free che induce la produzione di bava con l’utilizzo di un liquido “eccitante” creando una sorta di “centro benessere” per chiocciole felici.
Così, raccolta la bava, le lumachine possono tornare nei recinti e proseguire il loro ciclo vitale. E anche questo è economia elicoidale.