Hamburger a base vegetale, bistecche coltivate in laboratorio, salsicce ricavate dagli insetti, dai funghi, dall’aria, dall’anidride carbonica. Il mercato delle proteine alternative è in fortissima espansione: i consumatori sono spinti da ragioni etiche, ambientali, di salute. E le grandi aziende si stanno lanciando in questo nuovo settore: con risultati alterni. Anche perché, come in tutte le cose che stanno iniziando, ci sono le startup che alla carne finta ci stanno lavorando da anni, e i colossi che hanno fiutato l’affare.
Quanto conta la posizione di partenza rispetto al successo che si è destinati a ottenere? Molto, se non tutto. Perché se da una parte è vero che, come abbiamo detto, i consumatori più avveduti si spostano verso uno stile alimentare vegetariano, e ancora di più flexitariano, è anche vero che la maggior parte della popolazione esprime ancora forti diffidenze nei confronti di sostituti, proteine alternative, simil-hamburger. E per una serie di motivi, come mostra una recentissima ricerca: motivi legati al gusto, ma soprattutto alle abitudini, alla cultura, alle aspettative.
Del perché alcune carni finte hanno successo e altre no, ha parlato Jack Bobo, consulente dell’industria alimentare e autore del libro Why Smart People Make Bad Food Choices, intervistato dal podcast Red to Green. “Una delle maggiori sfide che le aziende di cibo devono affrontare è il passaggio dal produrre un cibo per i pochi entusiasti delle novità (early adopter) al tentativo di scalabilità in cui si vende a un mercato più ampio. E questo è importante, perché è il momento in cui la tua relazione con il consumatore cambia”. Bobo fa un’ipotesi teorica e astratta: se lo stesso hamburger prodotto da Impossible fosse stato firmato da Monsanto, non avrebbe avuto lo stesso successo. E non tanto per la questione degli OGM quanto più in generale per l’immagine che il colosso multinazionale ha acquisito nel corso degli anni: questo, badate bene, a parità di ingredienti strani e “chimici” che caratterizzano come abbiamo visto gli hamburger plant-based.
Un’altra cosa che Bobo nota non riguarda tanto la concorrenza interna nel mercato delle proteine alternative, quanto il grande scontro tra produttori di carne e produttori di “carni finte”. Una battaglia tra due macro-settori, quello tradizionale e quello dell’innovazione, che ha coinvolto vari aspetti a partire da quello del nome: si possono chiamare “salsicce”, per esempio, quelle fatte senza ingredienti di provenienza animale? È stata una battaglia condotta – e persa – dall’industria della carne. Questo dimostra però una cosa: che l’industria tradizionale riesce a fare fronte comune, mentre le startup no. Dice Bobo che negli ultimi anni c’è stata una grande riduzione del consumo di manzo e vitello, tutta in favore del pollame: per motivi economici, culturali, di percezione del consumatore, non importa. Quello che rileva è che quando si tratta di fare pressione sulla politica e le istituzioni, allevatori e filiera della carne hanno spesso una voce unica.
Infine c’è il punto centrale per le startup delle proteine alternative: su cosa fare leva per convincere i consumatori? Qui si incrociano questioni commerciali ed etiche. Fa notare l’esperto: “Il problema è che, quando dici che la carne coltivata è clean, stai suggerendo che la carne tradizionale è sporca. Ma stai anche suggerendo che non è etico, e la maggior parte dei consumatori non vuole avere una conversazione sull’etica nel momento in cui sta masticando un boccone. Quindi, quando porti l’etica nella conversazione, costringi le persone ad affrontare una dissonanza cognitiva: come puoi accarezzare un cagnolino e mangiare un maialino? È l’approccio delle associazioni animaliste, che è sicuramente d’impatto ma può essere controproducente”. Il discorso di Jack Bobo, com’è evidente, è tutto interno all’industria, pragmatico, orientato al mercato. Non è detto che non funzioni, nel breve periodo: ma se ridurre il consumo di carne è un obiettivo da perseguire a livello generale – e lo è – abbiamo bisogno di prospettive più ampie.