“Caggittu de Crabittu” , “Cazu de Crabittu” o “Callu e Crapittu”, questi i diversi sinonimi, in base alla zona di produzione, del caglio di capretto sardo, considerato il primo prodotto lattiero-caseario spalmabile della storia. La nascita della produzione del formaggio è collegata alla storia della pastorizia ed in particolare all’ esigenza di trasportare e conservare il latte. Come spesso accade è il “caso” il vero artefice di scoperte ed invenzioni che hanno guidato l’uomo nella trasformazione e conservazione gli alimenti.
La storia del caglio di capretto
Grazie agli studi dell’archeologia molecolare è stato possibile scoprire che circa 7000 anni fa, in diverse aree corrispondenti ai primi insediamenti umani della Mesopotamia, dell’Asia Minore ed Orientale e dell’ Europa Centro settentrionale, venivano ricavati degli otri dallo stomaco dei ruminanti ed utilizzati per trasportare liquidi, specie latte di ovini e caprini. Un’antica leggenda racconta di un mercante arabo che, per compiere un viaggio attraverso il deserto, oltre al cibo portò con sé del latte usando per contenitore lo stomaco di pecora. All’arrivo a destinazione con grande sorpresa trovò, al posto del latte, un liquido più denso e cremoso: fu così che “nacque” la prima cagliata. Scoprire quindi che l’abomaso dei ruminanti non svezzati è ricco di enzimi adatti alla coagulazione passaggio fondamentale per la trasformazione del latte in formaggio diede il via, in svariate parti del mondo, alla produzione di derivati del latte. Che il caglio di capretto sia il primo il primo formaggio consumato dagli antenati sardi lo testimonia anche un importante reperto di arte paleocasearia conservato nel museo archeologico di Cagliari: una figura maschile in bronzo con in mano un “callu e cabrittu, di epoca nuragica.
Come viene fatto il caglio di capretto
Anticamente i pastori prima di abbattere i capretti, facevano bere del latte materno. Subito dopo la macellazione l’abomaso, pieno del latte dell’ ultima poppata, veniva prelevato e messo ad asciugare nei pinnetti, antiche dimore rurali dei pastori sardi. L’attività di enzimi e batteri contenuti nello stomaco del caprino, trasforma il latte in un formaggio a pasta cremosa, semisolida, acidula, piccante e molto saporita, consumata dai sardi in svariate occasioni. Come spuntino dopo le battute di caccia o come “digestivo” alla fine di un pasto importante.
In tempi moderni invece, dopo la macellazione, l’abomaso si svuota, il latte viene filtrato, rimesso nello stomaco del capretto, chiuso con dello spago alimentare e lasciato stagionare, per una quindicina di giorni, in un locale asciutto e ventilato In alcuni casi segue una leggera affumicatura, prima di essere confezionato in apposite sacche idonee all’uso ed alla commercializzazione.
La vendita
Giungere a commercializzare il Caglio di Capretto, non è stata un’ impresa semplice. Ce lo ha spiegato bene Fabrizio Vella, presidente dell’Associazione “Sociu po su jocu de sa murra” del comune di Urzulei (provincia di Nuoro), impegnata a preservare tutto ciò che è memoria della comunità urzulina e del popolo sardo, nonché ideatrice della “Festa de su càgiu de crabitu e de sa peta de becu” dedicata al caglio ed alla carne di caprone. A Urzulei, comunità montana a forte vocazione pastorale in cui crescono allo stato brado maiali e capre, il caglio si è sempre mangiato, da che l’uomo ne ha memoria, protagonista indiscusso dei momenti importanti della vita.
Prima i pastori, in genere, regalavano un caglio a fronte dell’acquisto di un capretto, non c’era un mercato vero e proprio. Inoltre, non era commercializzabile perché ritenuto un alimento fuorilegge ed illegale per via di anomalie igieniche in fase di produzione quali la presenza di peli nell’abomaso del capretto. Difatti un tempo l’abomaso ripieno di latte veniva messo a stagionare dai pastori subito dopo la macellazione, sopra “sa cannita” una sorta di mensola in legno che stava al di sopra del focolare posto al centro della capanna dei pastori, il cui il fuoco tenue asciugava e donava affumicatura al caglio di capretto.
La svolta per la commercializzazione del caglio avvenne nel 2004, grazie ad una tavola rotonda organizzata nel 2004 ad Urzulei dall’Associazione “Sociu po su jocu de sa murra” a cui presero parte giornalisti enogastronomici esperti del settore, enti preposti, asl di zona e l’istituto zooprofilattico, dal titolo “Caglio di capretto: prospettive di valorizzazione di un prodotto tipico sardo”.
La tavola rotonda ebbe molto successo e avviò una lunga trafila burocratica che introdusse norme igienico sanitarie più adatte a consentire al caglio di essere commercializzato, quali lo svuotamento dell’abomaso del capretto al fine di filtrare il latte prima di riporlo a stagionare in ambienti idonei, a temperatura controllata e costante. Dalla tavola rotonda è nata anche la celebre festa che si tiene ad Urzulei ogni anno in estate volta a promuovere i prodotti caprini. Gli organizzatori, l’associazione Sociu po su jocu de sa murra e la Pro Loco, amano definire questo momento una festa e non una sagra per sottolinearne il carattere tradizionale piuttosto che quello commerciale, volta principalmente a sostenere le attività agricole dei caprai. Da qualche anno il Caglio ha ricevuto la denominazione di P.A.T. – Prodotto Agroalimentare Tradizionale della Sardegna – denominazione in cui si racchiudono tutti i prodotti caratterizzati da processi di lavorazione, conservazione e stagionatura consolidati nel tempo, omogenee nel territorio interessato ed eseguite secondo regole tradizionali per un periodo non inferiore ai venticinque anni.
Attualmente il caglio viene prodotto in varie aree della Sardegna, in linea con i flussi della transumanza. Non è insolito, quindi, trovarlo anche in prossimità delle aree costiere, perché d’ inverno le greggi si spostano verso zone con temperature più miti e pascoli più ricchi. Nelle gastronomie specializzate e online si trova generalmente sottovuoto, a prezzi assai variabili (si arriva a pagarlo 40 euro al chilo, ma in loco si risparmia notevolmente).
Prova d’assaggio
Il caglio prende la forma dell’abomaso di capretto. Esternamente ha una crosticina liscia e sottile di colore giallo scuro. Aprendo la sacca con un coltellino, si apprezza una pasta bianca dalla consistenza semisolida. Estraendola con un cucchiaino, si sprigionano note intense, selvatiche e speziate, ingentilite da un profumo di erbe mediterranee e fieno.
Le papille gustative, all’assaggio, restano folgorate dalla texture scioglievole, cremosa e dal suo gusto intenso, sapido e piccante. Volendo ricondurre il profilo aromatico ad un altro alimento, potremmo tirare fuori dal cilindro dei descrittori la crosta di Parmigiano. Ma anche quello del miele di acacia, a cui si susseguono note erbacee intese e leggermente amare di cardo e carciofo. Completa l’assaggio un retrogusto molto aromatico di mallo di noce. Spiazzante l’equilibrio finale complessivo.