Oggi che la sostenibilità ambientale è un tema comune, ogni tipo di consumatore, critico o meno, è sottoposto alla costante seduzione del greenwashing: da una parte la rassicurazione di acquistare in modo “etico”, dall’altra la possibilità di rimanere in una zona di comfort in cui anche i love brand prescelti, le catene e i marchi da cui attinge più frequentemente, si stanno seriamente impegnando ad agire nel rispetto dell’ambiente. Dal loro canto le aziende più grandi, in qualsiasi mercato, possono contare su investimenti pubblicitari e agenzie di marketing che fanno per loro il lavoro sporco: rielaborano messaggi che fino a una decina di anni fa sarebbero stati sentiti come ininfluenti e li trasformano in leve comunicative imponenti. In strategie rassicuranti.
Capire quanta fetta di greenwashing sia presente nella pubblicità a cui siamo sottoposti è un’operazione non sempre semplice: l’informazione corre il rischio di schierarsi contro colossi che hanno tutto l’interesse a portare avanti indisturbate le proprie campagne, soprattutto se questo avviene senza l’aiuto di prove assolutamente incontestabili. Una delle prime attestazioni del termine, mutuata da un altro tipo di riposizionamento, quello del white washing, è legata al tema del lavaggio degli asciugamani nelle catene alberghiere, ma la storia degli ultimi 10 anni ci dice che le realtà del settore alimentare sono pienamente parte di questo processo e hanno cominciato a padroneggiare “il lavaggio verde” con una certa consapevolezza.
Le multinazionali del cibo
Solo per fare alcuni esempi, recentemente Coca Cola è stata accusata di greenwashing per alcune informazioni fornite sul suo packaging, nel Regno Unito una pubblicità di Tesco è stata bandita perché conteneva informazioni fuorvianti circa i suoi cibi vegetali, già nel 2010 Whole Foods Market veniva accusata di dare una rappresentazione non letterale del suo impegno ambientale.
Noi stessi abbiamo raccontato il caso delle stelle verdi assegnate dalla guida Michelin che dimostrano un interesse dell’azienda verso un riposizionamento green, ma abbiamo parlato anche del tema delle uova nelle grandi catene di produzione, molte delle quali stanno scegliendo di allontanarsi da quelle prodotte da galline allevate in gabbia. “Talvolta sul web circolano notizie vecchie e già smentite in cui veniamo accusati di pratiche di greenwashing, sollevando così dubbi sul modo con cui conduciamo le nostre attività nel mondo. Vorremmo pertanto chiarire la nostra posizione e raccontarvi il nostro impegno in ambito ambientale e i risultati finora raggiunti, a partire proprio dal nostro Paese” scrive Nestlé su una pagina dedicata del suo sito per raccontare il suo impegno ambientale, segno di un problema sentito come urgente ma anche difficile da districare. Nel 2018 la studiosa americana Marion Nestle ha pubblicato un libro in cui raccontava come le multinazionali del cibo si fanno frequentemente promotrici di ricerche su temi alimentari che facilitano la vendita dei loro stessi prodotti, senza avere l’obbligo di dichiarare eventuali conflitti d’interessi.
I polli
È anche il caso recente di un report condotto dall’associazione World Animal Protection, in collaborazione con Animal Equality, che denuncia come alcuni dei più grandi marchi di fast-food internazionali non abbiano lavorato nella direzione indicata dagli impegni pubblici presi circa la tutela del benessere dei polli utilizzati per la loro carne. Tra i marchi coinvolti nel report, ce ne sono alcuni molto noti: Burger King, McDonald’s e Starbucks. McDonald’s aveva preso impegni nel 2017 nei confronti del benessere animale dei polli, Burger King addirittura nel 2012. Un report che nasce con l’obiettivo sostanziale di intrecciare due tipologie di dati: la voce Impegni e Obiettivi, che riflette la portata e la completezza dell’impegno di un’azienda nei confronti del benessere dei polli in base ai criteri specifici delineati nello European Chicken Commitment per le aziende UE, e la voce Rendicontazione delle prestazioni, che riflette la misura in cui un’azienda ha attuato i propri impegni in relazione ai criteri dello European Chicken Commitment. In poche parole si tratta di fare “match” tra quanto le aziende dichiarano pubblicamente e quello che effettivamente realizzano sul campo. In base alla concordanza dei due modelli, le aziende ricevono un punteggio compreso tra 1 e 6, come 1 (leader), 2 (buono) 3 (in fase di sviluppo), 4 (agli inizi), 5 (poor), 6 (very poor).
Il greenwashing nella ristorazione
Parlando di esempi molto più piccoli, poiché il greenwashing può insediarsi anche nelle pieghe e nelle strategie di aziende che sono tutt’altro che multinazionali, già da qualche anno si parla di greenwashing anche nel mondo della ristorazione. Una recente e lunga inchiesta su uno dei ristoranti più acclamati degli Stati Uniti, Blue Hill at The Stone Barns, ha portato a scoprirne non solo comportamenti poco sostenibili sul profilo ambientale, ma anche tutt’altro che etici dal punto di vista umano.
La sovranità alimentare che “nasconde” il sovranismo
Ma senza andare troppo lontano, proprio in questi giorni il governo appena insediatosi ha dato qualche segno di riposizionamento nell’adottare una nuova nomenclatura nella definizione del ministero dell’agricoltura, rinominato “ministero dell’agricoltura e della sovranità alimentare”. Se ad una prima impressione il ribattezzamento ha evocato negli utenti spiacevoli reminiscenze da ventennio, dall’altra sono stati in tanti a sottolineare che il concetto di sovranità alimentare preesiste a questo governo e si riferisce a un movimento di rivendicazione dell’autonomia e dell’autodeterminazione degli agricoltori. Il nuovo ministro dell’agricoltura, Francesco Lollobrigida, si è affrettato a sottolineare che la sovranità alimentare non ha nulla a che vedere con l’autarchia, dopo aver ricevuto un incauto endorsement anche da Slow Food.
Permangono tuttavia seri motivi per credere che l’aderenza ai principi della sovranità alimentare intesa nella sua genesi originale sia tutt’altro che affidabile, come aveva fatto pensare anche un intervento, dai contorni poco chiari, di Giorgia Meloni al Villaggio Coldiretti o la stessa interpretazione fornita dal programma della Lega presentato in campagna elettorale. Fabio Ciconte ha fatto notare, prima che la nomina del ministero si concretizzasse, che nelle intenzioni di questo governo la sovranità è intesa come sovranismo. Intanto alcune associazioni agricole indipendenti si sono mosse per protestare contro quella che hanno definito “un’appropriazione culturale”. Se non è propriamente greenwashing questo, se non lo sarà almeno, possiamo comunque riconoscere una certa ambiguità di fondo.
Il problema sta tutto nella capacità di sorveglianza da parte degli utenti, ma anche dei media, al momento in cui vengono recepiti certi messaggi, che spesso nascondono contenuti contraddittori e poco decifrabili. Utilizzo di immagini riferite al mondo della natura, sforzi concentrati su un unico prodotto, ma anche attività di compensazione raccontate in pompa magna, sono alcuni dei segnali (qui c’è un piccolo prontuario per riconoscerli) che dovrebbero metterci in allarme: non è un paradiso verde quello che stiamo vedendo. Anche se ci piacerebbe da matti.