10 cose che dovremmo importare dai supermercati americani

I supermercati americani fanno anche cose buone. Eccone 10 che importerei: dal carrello all'assenza di guanti e file.

10 cose che dovremmo importare dai supermercati americani

Gli Stati Uniti non sono esattamente l’esempio virtuoso in termini di qualità e consumo del cibo. Per questo è stato facile stilare la lista di 12 cose che non importerei dai supermercati americani. Però, come si dice, don’t throw the baby out with the bathwater: non bisogna pensare che sia tutto da buttare, o condannare. Detta in altre parole: qualcosa si salva. Anzi, più di una che varrebbe la pena di importare in Italia.

Gli aspetti che ho scelto di evidenziare si basano su varietà, sostenibilità e organizzazione dei supermercati. Ad esempio, la questione (incomprensibile all’estero, non solo in USA) dei guanti usa e getta per la frutta; quella del soldo per il carrello, in teoria risolvibile con la civiltà delle persone; o ancora la disponibilità di alcuni prodotti come burro di arachidi e verdure fermentate.

Accortezze, offerte, modi di fare la spesa da tenere d’occhio, e magari imitare. Ecco quali sono 10 cose che importerei dal supermercato americano.

Carrello senza moneta

Carrelli-spesa

Se nel 2000 le macchine voleranno, figurarsi se nel 2024 saremo ancora lì a cercare la monetina per il carrello. Due previsioni evidentemente sbagliate, visti i livelli di traffico e inquinamento da una parte, e le ricerche stile macarena per il portafoglio (nel parcheggio per le macchine, sempre loro) dall’altra.

Perché usiamo la moneta? Perché altrimenti sarebbe il Far West, e far capire alle persone questioni ovvie come la sicurezza nei parcheggi, o più banalmente l’educazione per il prossimo e per chi al supermercato ci lavora sembra fantascienza. Nel Far West vero invece, ovvero gli Stati Uniti, le monete non ci sono, i carrelli si prendono liberamente e si rimettono a posto. Non è magia, è senso civico.

Ortofrutta senza guanti

supermercato

Ammetto i miei limiti ma davvero non riesco a concepire il senso dei guanti usa e getta nel reparto ortofrutta. Indossati un secondo per raccogliere un prodotto che, seppure fresco e pronto da mangiare, si lava sempre prima del consumo. Quando addirittura non si sbuccia (vedi banane, arance, kiwi) e lì davvero l’inconcepibile diventa ridicolo. Che diamine, prima del COVID l’Amuchina ci ha fatto un impero sul lavaggio di frutta e verdura.

Signori, il punto non sono le mani che toccano la mela: il punto sono i pesticidi, fertilizzanti e compagnia bella che ci hanno spruzzato sopra. Un guanto non fa differenza per l’igiene, lo fa piuttosto per lo spreco (oltre al danno, con la beffa di essere totalmente inutile). In un mondo dove usa e getta dovrebbe essere una parolaccia, noi ci ostiniamo a fare gli schizzinosi senza alcun fondamento. Prendiamo esempio dagli Stati Uniti, ma anche Francia, Germania e resto del mondo. L’asettico, se esiste davvero, sta bene all’ospedale e non al supermercato.

Bio senza confezione

verdure-supermercato

Discorso simile, certamente più complesso per il bio. Non esiste alcuna legge o regolamento a imporre che la frutta e verdura biologica in Europa debba essere venduta imballata. Basta farsi un giro nei negozi e mercati biologici per rendersene conto. L’imballaggio di per sé non serve né a distinguere, né a “proteggere” (da potenziali contaminazioni con gli ortaggi convenzionali, si suppone) i prodotti bio. Qual è allora il senso di questo paradosso?

Facciamo un passo indietro. Da reg. UE 848/2018 si evince che tutti gli operatori della filiera biologica, dal produttore al distributore, debbano essere assoggettati all’obbligo di notifica e controllo della loro attività. Ne sono esonerati soltanto coloro che decidano di vendere i prodotti (freschi, non trasformati) pre-imballati. La grande distribuzione europea in genere opera questa scelta per non sottostare a ulteriori passaggi burocratici.

La situazione è diametralmente opposta negli Stati Uniti, dove organic e non convivono tranquillamente al supermercato. Involucro non pervenuto, solo il classico bollino con codice applicato ai singoli pezzi che ne certifica provenienza e metodo di agricoltura. Come risolviamo questo rompicapo? Accettando di fare più scartoffie; creando “isole bio” dedicate; con altri metodi per designare frutta e verdura biologiche. Dell’imballaggio, in carta, plastica o bio-plastica che sia, faremmo volentieri a meno.

Cavoli & co

cavolo cinese tritato

Il paradiso delle Brassicaceae è qui, dai banchi della verdura, al frigo delle insalate, al reparto snack. Sono kale, broccoli, cavoletti di Bruxelles, cavolo cinese, cavolo nero, rapini o cime di rapa. Il supermercato americano ne offre a palate e li fa apprezzare in formati diversi, specie quelli immediati al consumo. Perché, diciamocelo, chi (a parte pochi tra noi) ha voglia e tempo di mettersi a pulire/tagliare/cuocere la verza?

Per invogliare i consumatori a mangiare più cavoli ci sono due modi. Da una parte, renderli facili e sfiziosi: e allora via libera al kale in busta al posto della lattuga, ai green smoothies, alle chips di cavolo essiccate. Dall’altra, beh fare in modo che siano disponibili. E allora perché la nostra grande distribuzione è spesso così poco variegata?

Fateci caso: cavolfiore e broccoli, ogni tanto uno sparuto cavolo verza/cappuccio, e di nuovo cavolfiore e broccoli. Stop. E non venitemi a parlare di stagionalità, che siamo i primi a comprare pomodori e zucchine tutto l’anno. Non è solo una questione di celebrare il patrimonio alimentare locale e di stagione, ma anche e soprattutto una sana abitudine viste le innumerevoli proprietà di questa famiglia vegetale. Più cavoli per tutti, anche a merenda.

I pickles

Pickles-cetriolini

Le verdure fermentate non sono il nostro forte. Questione di cultura, senza dubbio, ma non è mai troppo tardi per prendere una sana abitudine. Pickles è il termine che fa riferimento non solo ai cetrioli più noti, ma a tutti i fermentati anche freschi come sauerkraut e kimchi. Eccellenti fonti di probiotici e prebiotici per il microbiota intestinale, la cui salute è fondamentale tanto quella del cervello.

Questa famiglia di alimenti avrà pure origini disparate (viene in mente la Corea, ma anche Giappone, Germania, Russia) ma nel frattempo è diventata americana tanto quanto l’apple pie. Tutti mangiano e apprezzano i pickles come aperitivo, snack, guarnizione, condimento e persino bevanda (ok forse bersi l’acqua speziata e salata è un po’ hardcore ma ehi, a ognuno il suo).

La nostra specializzazione è più conserviera, vale a dire sott’olio e sottaceto come accade per cipolline, carciofi, peperoni e così via. Manca spesso la fermentazione, ovvero quel processo avviato da acqua e sale che trasforma gli alimenti in toccasana per la flora batterica. I pickles sono buoni, versatili e fanno bene: cosa aspettiamo a mangiarne di più?

Il burro di arachidi

burro arachidi temperatura ambiente

C’è qualcosa di più americano del peanut butter? Forse è per questo che da noi è sempre stato demonizzato, come si trattasse di una bomba (calorica, di grassi) a orologeria pronta a esploderci su fianchi e pancia. Vi do una notizia: il burro di arachidi in purezza è uno snack sano e proteico, addirittura fra i più proteici in circolazione. Un cucchiaio basta a sentirsi sazi e pieni di energie, e non a caso è molto popolare tra atleti e sportivi.

Ecco allora il paradosso. In Italia il burro di arachidi è ancora troppo difficile da trovare e, quando c’è, contiene esattamente ciò di cui non ha bisogno: sale, zuccheri e olii vegetali aggiunti. Ingredienti del tutto superflui visto che le arachidi contengono naturalmente olio e sono di per sé molto saporite.

Il peanut butter statunitense al contrario è ubiquitario e generalmente meno “corrotto”. Certo, non mancano eccezioni, specie quando è già mischiato alla jelly del popolare pb&j sandwich (che tra l’altro corrisponde al nostro pane burro e marmellata). Di solito però la più grande differenza si limita alla consistenza, smooth o crunchy senza additivi e conservanti. Ah, che mondo sarebbe senza… questa, di crema spalmabile.

Assenza del reparto “etnico”

Salse-supermercato

La ghettizzazione, e conseguentemente il razzismo, avvengono ai livelli più basilari. Prendiamo il cibo: quanti anni ci sono voluti a far cessare lo spauracchio del kebab? Quanti a sfatare il mito del mal di testa da cucina cinese? Quanti a sdoganare il sushi, da male assoluto alla svendita dell’all you can eat?

Alcuni pregiudizi li abbiamo superati, ma spesso nel supermercato italiano permane il cosiddetto “reparto etnico” accozzaglia tremenda e abbastanza razzista di riso basmati, salse “messicane”, vermicelli e salsa di soia. Adesso, lungi da me dal sostenere che i razzistissimi Stati Uniti dovrebbero insegnare a noi la tolleranza. Tuttavia, essendo a tutti gli effetti un melting pot, il supermercato si è adeguato di conseguenza e i prodotti (non più etichettati come “etnici”) sono mischiati agli altri e disposti per logica.

Tortillas? Reparto pane. Latte di cocco? Reparto bevande vegetali. Noodles di riso? Reparto riso. Salsa di soia? Reparto condimenti. Al massimo nei supermercati più forniti capita di incappare nel corridoio international foods che raccoglie specialità per lo più europee o ispirate a preparazioni tipiche di Francia, UK e, indovinate un po’, Italia. Come vi fa sentire? Beh, sicuramente meglio “internazionali” che “etnici”. Le parole sono importanti, non solo per un linguaggio più inclusivo, ma anche per una più che mai urgente apertura mentale.

Tempi di cottura ben in vista

pasta garofalo

Ci hanno fatto una petizione (e alcuni hanno anche risposto). Il perché i tempi di cottura della pasta debbano essere nascosti è un mistero, tutto italiano a quanto pare. Poche cose fanno imbestialire di più, o avere una crisi di panico per principio di miopia grave, fate voi.

Gli Stati Uniti a quanto pare sono riusciti nell’impresa: tempi di cottura ben in vista soprattutto (e questo è il paradosso) nelle confezioni di importazione italiana. Che nella maggioranza dei casi riportano l’indicazione X minuti stampata sul fronte della confezione (ci vuole tanto?!) e, laddove mancante, riportata logicamente nella sezione how to che spiega le fasi di preparazione passo passo.

Insomma, pasta for dummies che per carità, in tanti casi all’estero ci vuole. Noi che la pasta la sappiamo fare chiediamo soltanto una dicitura chiara e tonda, un minutaggio stile Brondi che prevenga non tanto la svista da vecchiaia, quanto la vecchiaia anticipata a forza di cercare affranti sto benedetto numero. Uno stress ossidativo in più (fra i tanti) di cui faremmo volentieri a meno.

Il chiama-fila

Chiama-fila-Trader-Joe

Lo ammetto, questo è uno di quegli aspetti legati a una singola catena di supermercati, in questo caso Trader Joe’s. Si tratta di una specie di discount (prezzi più bassi ma non bassissimi) in cui la maggioranza dei prodotti fa parte della linea del supermercato stesso. La peculiarità (oltre agli spazi con soffitti altissimi, una specie di cattedrale del cibo) è il modo in cui si formano le file per la cassa.

A turno i commessi “chiamano” la fila, aiutati dai cassieri che segnalano la postazione libera con una bandierina numerata. I clienti vengono disposti in due o tre file, che nelle ore di punta vengono fatte snodare nel supermarket da altri commessi con vari segnali in modo da lasciare pezzi di corridoio liberi per chi sta ancora facendo la spesa.

Se avete presente il “piedibus” o autobus a piedi per bambini piccoli che vanno e vengono da scuola, ecco l’idea è quella. Anche se le file sembrano lunghissime in questo modo scorrono veloci, senza equivoci da c’ero prima io o altre gentilezze cui assistiamo tutti i giorni. In foto, l’impiegata di Trader Joe’s in piedi sulla scala per vedere meglio le bandierine e indirizzare il prossimo cliente. Un metodo carino e civile di fare la spesa – e le file in generale, non proprio la nostra specialità.

Sconti cumulabili

Buste-spesa-carta

Carrello pieni fino all’inverosimile e conto finale pari a zero? Nessun furto: tutto è lecito e legittimo grazie agli sconti cumulabili in voga negli Stati Uniti. Chi si ricorda il reality show Pazzi per la Spesa sa di cosa parlo: clienti efferati e minuziosi al limite dell’amanuense nella ricerca, collezione e conteggio spasmodico dei coupon. Emessi dai supermercati o ritagliati dai giornali (oggi disponibili anche online), questi bigliettini da pochi centesimi l’uno trasformavano la spesa da “spesa” (participio passato di spendere) a “gratuita”.

Parlo al passato perché oggi la pratica dei doubling coupons ovvero sconti cumulabili è assai più limitata e regolamentata, e non tutti i supermercati la ammettono. Esisterà meno, ma almeno esiste: e qui torniamo alla nostra mesta realtà. Dove ogni coupon è vincolato a una spesa minima, che poi tanto minima non è visto che si aggira intorno ai 15-20 euro (se non addirittura 45-50 euro) e applicabile a un’unica transazione (non cumulabile, appunto).

Dove per un punto o un bollino tocca svenarsi, e  completare una scheda è utopia pura. Dove i “premi” sono miserrimi e, a conti fatti, ci si accorge di aver speso 100 euro per quattro piatti o un asciugamano. In una Repubblica italiana sempre più alle strette che sembra basarsi non più tanto sul lavoro quanto sul reddito di cittadinanza, lo sconto cumulabile sarebbe un piccolo sollievo fra i costanti, doverosi conti in tasca. Di quelli che, per mangiare, non si dovrebbero proprio fare.