Il ristorante Wonton di Milano da qualche mese arricchisce la scena gastronomica esigente e variegata di Porta Venezia con la sua proposta creativa e immaginifica della tradizione cinese cantonese. I pro e i contro di questo interessante esperimento, nella nostra recensione.
Sento parlare della Ravioleria Sarpi praticamente dal giorno stesso in cui mi sono (ri)trasferito a Milano. È una piccola vetrina di via Sarpi che sforna (cioè svapora) ravioli cinesi fatti freschi, dotata di campo magnetico che cattura ad ogni ora, in una densa fila composta ma impaziente, qualsiasi essere vivente ne graviti intorno.
Poco tempo dopo, ero già seduto a pranzo, da solo, alle “9 scodelle”, nuovo ristorantino di cucina regionale cinese che propone piatti piccanti in una formula svelta e simpatica (appunto in 9 ciotole a scelta), e che rapidamente ha conquistato la benevolenza del quartiere, ma non quella della redazione di Dissapore, dal momento che il collega Giovanni Puglisi lo ha recentemente bocciato in una sua recensione (e io, per la cronaca, sono d’accordo con lui).
Ciò che accomuna i due suddetti posti è colui che ne è a capo, il signor Agie Zhou. Cino-milanese DOC, oltre che grazie al chiaro fiuto imprenditoriale, Zhou ha avuto successo, mi spiego, perché ha saputo usare la tradizione gastronomica cinese come veicolo culturale prima che come baluardo di qualità, non sempre assicurata. Come strumento di conquista gentile dell’immaginario cittadino, riuscendo a far sentire Milano un po’ cinese anch’essa, magari addirittura orgogliosa della sua Chinatown, una delle più grandi e importanti d’Europa.
È in questo contesto che mi piace inquadrare la terza, recentissima, apertura in capo a Zhou. Wonton, in zona Porta Venezia, si presenta sobrio e quasi neutrale nel design: arancio-mattone in un gioco di ton sur ton con i tavoli in legno naturale. Spezzano la fievolezza grandi ritratti multicolor di Mao in stile pop art a là Warhol.
I quadri sono una metafora dell’offerta culinaria. Come Warhol faceva con l’arte, la tradizione cantonese qui è presa alla leggera, scanzonata, resa accessibile e divertente. A volte anche autoironica e dissacrante. Allora la ritualità impostata con cui si serve l’anatra laccata alla pechinese, iniziando dal fegato e coscia, viene stravolta con nonchalance in una tartina di patè di fegato aromatizzata con ginepro e un velo di marmellata di albicocca, e accompagnata da un bicchiere di passito italianissimo e per niente cinesissimo. Il vino dolce a inizio pasto è una rottura degli schemi non da poco.
Menu, prezzi, piatti provati
Scherzi e contaminazioni irriverenti ricorrono ancora nel riso saltato con verdure e funghi Shiitake sfumato al whisky (8 euro), e nella quaglia alla cantonese (15 euro), cotta a bassa temperatura, affumicata al tè, e innevata da cristalli di sale di Maldon, friabile e croccante. Veramente squisita.
Nei ravioli di gamberoni (7 euro), schiocca la carne soda e fresca del crostaceo a cui fa da contrasto la cremosità della farcitura all’uovo e germogli d’aglio cinese. Peccato che la pasta sia un po’ carente, farinosa e leggermente dura.
La carta dei vini è piccola ma non scontata. Scelgo un calice di Petite Arvine della Valle D’aosta (7 euro), un vitigno svizzero che – ci assicura il nostro cameriere – si esprime molto meglio in Italia che in patria.
Ma il pezzo forte della proposta è appunto l’anatra laccata alla pechinese, porzionata al tavolo e servita con i consueti pancake e annessi condimenti (cetriolo, cipolline fresche, e salsa di prugna). Soddisfacente nel complesso, anche se di aromi non particolarmente intensi e avvolgenti. Sapori un po’ troppo alleggeriti che invece non si riscontrano nelle ossa del pennuto fritte e ulteriormente insaporite, da spolpare con le mani all’insegna del “non si butta via niente”. Una goduria.
Avvertimento: parentesi noiosa. Indagine frammentaria e di scarsissimo valore statistico sul mercato intercontinentale delle anatre laccate. Prendiamo 3 piazze internazionali forti sul cinese con annesse famose China Town. A Londra, questo piatto sta in media sui 70 euro, a Singapore sui 60, mentre costa 90 euro presso un noto stellato newyorkese. Prendiamo atto che Wonton, con un cartellino da 90 euro, mira a un posizionamento molto alto senza che necessariamente lo stile del posto e la rifinitura della cucina siano conformi a questa ambizione. Ma tant’è.
Scacciamo questi brutti pensieri sui prezzi, accantoniamo le già espresse considerazioni sull’esecuzione non sempre perfetta e sui sapori a volte poco audaci, rimane la bella impressione di una proposta di cucina cantonese evoluta, matura, a cui non mancano larghe vedute e gusto per le contaminazioni inusuali.
Erano gli anni 80 quando il mondo, e l’Italia, per la prima volta scoprivano l’universo gastronomico cinese a colpi di bocconcini di pollo alle mandorle e bava, involtini primavera fritti in olio esausto Iveco, e meteoriti aliene di gelato fritto. Quella era cucina cantonese in versione horror show, sufficiente per incuriosire un pubblico ancora acerbo e sprovveduto. Ne e’ passato di tempo, e Wonton, pur nei suoi limiti, rappresenta un piacevole ritorno al cantonese, evoluto e stimolante.
Informazioni
Wonton
Indirizzo: Via Panfilo Castaldi, 21, 20124 Milano MI
Sito Web: facebook.com/Wonton.Milano
Orari di apertura: aperto tutti i giorni a pranzo e a cena; chiuso il lunedì
Tipo di cucina: cinese cantonese
Ambiente: smart casual
Servizio: formale ma non