Figlio di operai, a 29 anni dirigeva la sala di Piazza Duomo, il ristorante di Alba che la cucina di Enrico Crippa, con il mecenatismo della famiglia Ceretto, ha reso celebre nel mondo, portando le ambite 3 Stelle Michelin nella città del Tartufo Bianco. Vincenzo Donatiello, oggi, è nella hall of fame dei maître, nome a cui viene automaticamente associato lo stesso ristorante albese per la cura nella selezione dei vini e il servizio: tra qualche giorno uscirà (su Amazon) il suo libro “Io servo – Dizionario per camerieri” (con le foto di Marco Varoli foto e le illustrazioni di Adele Manuti) che in redazione abbiamo ricevuto in anteprima.
Una sorta di inno al lavoro in sala, uno scritto motivazionale in cui traspare l’intento di nobilitare la professione. Non aspettatevi un saggio sul vino, né un romanzo di formazione autobiografico: “Io servo” è, letteralmente, un dizionario, utilissimo a chi alla professione della sala si avvicina, in qualunque fascia della ristorazione. E questo è forse l’aspetto più significativo delle 140 pagine scritte da Donatiello, che non ci sia alcun sentore di classismo dato dall’ambiente in cui il direttore di sala opera: l’autore non si rivolge a camerieri di serie A e camerieri di serie B, ma ai camerieri. Non parla dall’Olimpo dell’alta ristorazione, ma dall’alto di un’esperienza tangibile, di una carriera brillante che per quanto ne sappiamo, scorrendo le parole chiave della sala secondo Donatiello, potrebbe svolgersi in un ristorante qualunque.
Sono pillole trasversali in uno scritto profondamente democratico, senza alcun tipo di velleità letteraria.
A questo cameriere molto modesto abbiamo posto qualche domanda.
Questo è un momento storico in cui l’avanguardia di sala prevede corsi di portamento e dizione: proprio in merito alla aspetto formativo c’è un percorso che ti senti di suggerire a chi sceglie di intraprendere questa professione?
“La formazione ottimale andrebbe riformata dal basso, bisognerebbe riuscire ad entrare negli alberghieri sia per svecchiare la didattica, sia per riuscire a far comprendere realmente quali sono gli sbocchi effettivi di questo mestiere, che si tratti di ristorazione classica, fine dining o hottelerie poco importa. Ne ho parlato spesso anche in altri contesti.
Se invece parliamo di formazione superiore in Italia abbiamo Alma e Intrecci ,che stanno facendo un bel lavoro; la prima improntata su una didattica più pratica, la seconda a mio avviso più orientata al marketing e a formare figure professionali che possano ricoprire ruoli manageriali tipo quello del sottoscritto.
Io personalmente sto facendo dei videocorsi in collaborazione con la Bartenders Academy: è uscito quello sul vino e a breve presenteremo un corso dedicato alla figura del cameriere 3.0 e poi perché no, mi auguro questo libro possa entrare nelle scuole, più in generale possa tornare utile a chiunque fa un lavoro a contatto con il pubblico.
Molte tra le abilità necessarie a un cameriere, però, sono difficili da apprendere attraverso i corsi, l’empatia e l’umanità ad esempio. In un momento in cui tutto è veicolato dai social riuscire ad umanizzare i rapporti è estremamente importante”.
Hai parlato di social, non posso non chiederti cosa pensi del ruolo degli influencer, c’è un confine secondo te tra il tuo mestiere e questa figura?
“Nel mio caso il confine è banalmente legato al fatto che ho anche altre competenze. Diversamente da altri non vedo assolutamente questo fenomeno come qualcosa da demonizzare, anzi, ho avuto a che fare con alcuni dei più noti wine influencer italiani e devo dire che ho trovato persone preparate, non solo belle cartoline. Si tratta di un segno dei tempi, vent’anni fa erano i 100 centesimi sulla tal guida a spostare i consumi, ora è questo. Ben venga se una persona giovane ed educata al vino riesce a fare avvicinare a questo mondo chi non è intercettato dalla stampa classica. Chi mi segue sui social sa che miro anche a questo, ecco forse il confine per quanto mi riguarda si assottiglia qui, cerco di unire i due mondi. Non escludo questa possa diventare una parte della mia professione in futuro, esattamente come tante altre cose. Il libro è il primo passo, ne ho in testa altri, soprattutto sul mondo del vino.
Sono partito dal servizio perché credo abbia bisogno di essere raccontato anche e soprattutto a chi non bazzica il nostro mestiere, ma ho in cantiere tutta una serie di contenuti sul vino, alcuni saranno pensati come una mini collana. Nel futuro mi vedo un po’ manager, un po’ wine writer, consulente, influencer. Perché imporsi confini”.
Al personale di sala sono richieste grandi energie, competenze trasversali, abnegazione, intelligenza emotiva. Poi però se guardiamo i libri paga di alcune (molte?) realtà ristorative, anche legate al fine dining, ci rendiamo conto di come la competenza non sia adeguatamente retribuita. G come gratificazione, ne parli anche nel tuo libro, non credo possa prescindere da quella economica.
“Argomento non semplice. Innanzitutto diciamo che questa non è una situazione generalizzata, esistono realtà virtuose in tal senso dove il lavoro è adeguatamente retribuito. Poi, come dico sempre ai miei collaboratori, bisognerebbe imparate prima a saper fare e poi a chiedere. Siamo il Paese che pensa sia meglio prendere la disoccupazione anziché lavorare per 1200 euro al mese, c’è qualcosa di malato in questo atteggiamento. Certo, guardando ad altri paesi ci si rende conto di come lavoro e salari siano diversi, ma dimentichiamo che da noi mancano le riforme strutturali in grado di abbassare il costo del lavoro. Finché la nostra classe politica non riuscirà a trovare un dialogo serio con il nostro settore dubito assisteremo a miglioramenti significativi in tal senso. Serve un dialogo serio, gestito da gente capace; ho letto proposte durante il lockdown che mi hanno fatto vergognare di essere rappresentato da gente del genere. Insomma è un discorso complesso.
Dal canto mio, cerco in qualche modo d’essere di ispirazione, di far capire a chi non è del mestiere che non esiste solo la figura dello chef, ma esistono professionalità e possibilità di far carriera anche quando si tratta di accoglienza e sala.
Se penso alle mie origini e alla mia carriera, mi dico che la meritocrazia esiste anche nel nostro Paese e questo libro vuole spronare a crederlo. Ho il grande rammarico di non aver lavorato all’estero perché sono esperienze arricchenti, lo ammetto, ma allo stesso tempo so che mai all’estero sarei rimasto: pensa a chi se ne va per poi sparare merda sul nostro Paese. Se vuoi cambiare le cose le cambi restando”.
[Foto: Chiara Cavalleris per Dissapore]